martedì 19 luglio 2011

Il capolavoro di Pushkin: Evgeny Onegin. E la letteratura russa non fu più la stessa (parte 1)

Lo Evgeny Onegin (Евгений Онегин: attenzione, ricordo ai non russofoni che la “O” non accentata si legge “A”) di Alexander Pushkin rappresenta un punto di assoluto non ritorno nella storia della letteratura russa. Mutatis mutandis, si pone per le lettere russe allo stesso livello della “Divina Commedia” di Dante, del “Cid” di Corneille, del Don Quixote di Cervantes e delle tragedie di Shakespeare: dopo la sua pubblicazione, nulla sarà più uguale a prima.

Dopo una presentazione così altisonante, e dati i rutilanti paragoni, chi dell'Onegin nulla sa, potrebbe immaginarsi una storia dal tono quantomeno epico. Nulla di tutto ciò. Lo Evgeny Onegin è un poema – un romanzo in versi, come ebbe a definirlo lo stesso Pushkin, e di argomento tutt'altro che eroico, men che meno epico.
Usando i classici schematismi da scuola media, lo si potrebbe quasi definire “un romanzo d'ambiente”, uno di quei tomi solitamente ponderosi di cui è ricca la letteratura ottocentesca e che, alla fine della fiera, sono caratterizzati dalla sostanziale preponderanza della cornice narrativa sulla storia in essi narrata. Lo so: una presentazione che potrebbe scoraggiare la maggior parte dei lettori. A ciò aggiungendo che, essendo lo Evgeny Onegin romanzo in versi, sia difficilmente aggredibile per un lettore che non sia in grado di leggere almeno una parte dei versi - Pushkin, se letto in traduzione, perde il 90% del suo immenso valore. Eppure, quel poco che rimane è più che sufficiente a giustificare una lettura per altro assai piacevole anche se ci limitiamo alla crosta più fragile ed esterna.

Riassumendo, il plot dell'Onegin è assai semplice. Evgeny Onegin, l'eroe eponimo, è un ragazzotto del primo ottocento pietroburghese, in molti aspetti assai simile al giovane Pushkin pre-decabrista. Permeato di cultura inglese, soprattutto nella sua declinazione byroniana, passa da una festa all'altra, da un amorazzo all'altro, dilapidando senza troppe preoccupazioni l'eredità paterna, che comunque scopriamo rovinata dallo stesso degno genitore (lo stesso Pushkin, nonostante l'indiscutibile successo letterario, arriverà ad ipotecare 200 dei 220 servi della gleba pochi giorni della prima della morte in duello):
“... fu a quel tempo
che morì suo padre, e un avido
reggimento di strozzini
d'adunò davanti a lui,
tutti a dir la sua.”

Vale la pena di sottolineare già qui una delle grandezze assolute di Pushkin, soprattutto per chi non l'abbia mai letto. La capacità, cioè, di descrivere con lievità ma anche con estrema precisione delle realtà del suo tempo. Mi spiego meglio: come vedremo, Pushkin sa parlare con forza anche al tempo futuro - anzi di "vedere" un futuro (e la figura di Tat'jana in questo è emblematica), ma sa anche rappresentare e cogliere con precisione assoluta il tempo che lo circonda. Usando l'ironia, dove serve - come nel passo di cui sopra. Che però rappresentava la quotidianità per una generazione (o meglio: degenerazione) di nobili rovinati dalla crisi economica. Attenzione: in questo, Pushkin è sorprendentemente più moderno del geniale Tolstoj. Mentre questi è costretto ad escogitare matrimoni fortunosi per risolvere i dissesti economici di una parte dei suoi quasi coevi protagonisti di Guerra e Pace (e lasciamo stare le sue proposte di riforma economica di Anna Karenina...), Pushkin parte da questi versi di tono quasi scherzoso e, nel prosieguo del romanzo, senza mai atteggiarsi a profeta o trombone, fa attive proposte di riforme sociali che, però, maschera così bene da renderle palesi solo ad una lettura molto profonda.

Tornando al romanzo, non a caso i primi versi del poema sono una breve e geniale istantanea sui pensieri di Onegin, dedicati ad anonimo zio, di cui il giovinastro aspetta impazientemente la morte che lo farà beneficiario di una nuova rendita:

Quel sant'uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
per aver rispetto quando
per davvero s'è ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
ma, perdio!, che noia stare
giorno e notte ad un capezzale,
senza muoversi d'un passo!
E che bella ipocrisia
coccolare un moribondo,
rassettarlo sui guanciali,
dargli farmaci e conforti,
sospirando dentro sé:
ma che il diavolo ti porti!


Alla morte dello zio (strofa LII), Onegin si ritrova beneficiato di una rendita che, però, lo obbliga a lasciare il mondo pietroburghese in cui tanto si trova a suo agio:

“e ecco Onegin insediato
nella piena proprietà
d'acque, boschi, terre e fabbriche.”


Ovviamente, un giovane annoiato come Onegin, che si reca sbadigliando al funerale dello zio (“Letto il triste annuncio, Evgeny / partì subito in corriera, / per vederlo, preparandosi, / sbadigliando già in anticipo / a sospiri, noia e recite / per amore del quattrino”) non può trarre grande interesse dalla vita di campagna, che alla seconda giornata l'ha infatti già stancato. Ora: la tentazione più forte potrebbe essere quella di vedere in Onegin una maschera di Pushkin – niente di più sbagliato. Pushkin in questo è come Dante: non si limita a narrare. Se Onegin si ispira ad una parte della vita di Pushkin, questi s'affretta a porre dei paletti – a dire “io”. Arrivando persino alla contrapposizione con il suo protagonista. Si tratta di un dato rivoluzionario per la letteratura russa, che mai aveva conosciuto un “io” poetico così forte – senza il quale, né Tolstoj né Dostoevskij sarebbero pensabili. Tanto è annoiato Onegin della vita di campagna, tanto Pushkin dichiara di amarla: “Io son nato per la quiete, / per la vita di campagna: / più è in disparte e più sonora / è la voce della lira, / e la fantasia più accesa.”

In realtà, quasi mai qualcosa è in Pushkin esattamente ciò che sembra. Più spesso, la realtà si cela sotto una maschera di apparente banalizzazione – grattata via la quale, l'estrema profondità poetica del Veliki Knjaz della poesia russa erompe con la forza di una tempesta: quando Pushkin scrive questi versi, egli è appena rientrato dall'esilio forzato in Crimea. Pur beneficiando di una grazia, è confinato in campagna, nelle proprietà paterne. Può essere vero – come ebbe a scrivere anche altrove, che la vita di campagna lo aiuti ad affilare le armi poetiche... ma niente più che una breve pausa per un uomo abituato alla bella vita pietroburghese.

Nel buen retiro campagnolo, Onegin fa conoscenza di un vicino – Lenskij. Che non potrebbe essere personaggio da lui più diverso:

“Vladimir Lenskij il nome,
gottinghiana la sua anima:
un kantiano nel fior fiore
dell'età: bello e poeta.
Questi i frutti degli studi
che con sé aveva portato
dalle nebbie di Germania:
fantasie di libertà,
mente fervida e un po' strana,
foga, sempre, nel discorso
e la zazzera sul dorso.”


In altre parole: tanto è byroniano il nostro Onegin, tanto è prototipo dell'esistenzialista il buon Lenskij. “Cuore tenero e inesperto”, le sue incertezze, i suoi dubbi, la sua perenne distrazione, sembrano (sono) costruite a specchio sul disincantato “menefreghismo” di Evgeny.
Così, quando il giovane Lenskij che ostinatamente “credeva nel destino, / in un'anima gemella / che languendo sconsolata / ogni giorno lo aspettava; / in amici sempre pronti / ad andare per lui in carcere / ed a smentire senza indugi / chi l'avesse calunniato” decide di presentare ad Evgeny la propria amata, questi si aggrega con fare disincantato. Ol'ga – questo il nome della predestinata, per cui aveva emesso “il primo gemito / la zampogna del poeta”. E qui Pushkin compie l'ennesima zampata: descrivendo come il povero Lenskij sia preso da passione per Olga, ricorre alle parole ed ai topoi di Karamzin, il leader indiscusso del sentimentalismo Russo. Prima di diventare il padre della storiografia russa, la sua Бедная Лиза ("La povera Liza" ... un nome, un programma) aveva fatto versare ettolitri di lacrime alle signore di buona famiglia – imponendo a queste ultime e ad una parte della poesia russa una lingua rarefatta e raffinata, irrimediabilmente confinata al solo “stile medio” di Lomonosov. Pushkin, che dallo studio di Barkov aveva ereditato la capacità e soprattutto la necessità di mescolare i tre generi in una creazione armonica, ovviamente usa queste citazioni per deridere il celebre rivale ed imporre la propria poetica.
Bene: conosciuta Ol'ga, Onegin ne rimane piuttosto deluso. Abituato alle insopportabili odi di Lenskij, mielose fino allo sviluppo del diabete, non rivede nulla in lei – soprattutto, in lei non vede nulla che giustifichi l'entusiasmo dell'amico: non che le manchino bellezza e tutto sommato una certa intelligenza ma...
“... ma predente/un qualsiasi romanzo,/c'è di certo il suo ritratto:/uno schianto – anch'io l'ho amato,/ ma perdio se m'ha stufato!”

E come Pushkin si stufa in fretta di Ol'ga, così Onegin. Che invece è in qualche modo colpito dalla sorella maggiore.

“ieie siestra svalas' Tat'jana ...” - “sua sorella si chiamava Tatiana”.

E la poesia russa non sarà mai più la stessa........

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