martedì 16 agosto 2011

Il "Diavolo in Carrozza": dal dialetto parmigiano alle vette dell'Olimpo, e ritorno

Le tempeste sono una delle più spettacolari rappresentazioni della forza distruttrice della natura. Il tuono ed il fulmine rappresentano, a loro volta, i principali attori di uno show che, da sempre, viene guardato dall’uomo con un’indissolubile mescolanza di timore ed ammirazione. Prima che la scienza moderna arrivasse a spiegarci che dietro queste manifestazioni naturali vi siano processi fisici relativamente semplici, la fantasia e l’ingegno umano hanno ripetutamente cercato delle spiegazioni che fossero più o meno razionali. Ancora oggi, una diffusa espressione dialettale saluta il toneggiare come “il diavolo in carrozza” – frase che sembra fatta ad hoc per terrorizzare i bambini nelle notti di tempesta e che, di primo acchito, accoglie e materializza nel Male assoluto giudaico-cristiano le ancestrali paure dell’uomo nei confronti delle forze più devastanti di un mondo che è in grado di comprendere fino ad un certo punto.
Ebbene: questa semplice ed ingenua spiegazione pseudo-scientifica nasconde ben altra storia, dai risvolti del tutto inaspettati.

Per prima cosa, l’espressione “il diavolo in carrozza” ha una diffusa rappresentazione geografica. Si ritrova, con varianti locali più o meno accentuate, in quasi tutta l’Italia del Nord ed in alcune aree del meridione. Valicate le Alpi, essa è attestata in alcune aree della Germania, in Svezia, e più in generale in area baltica. La prima e più ovvia spiegazione risiede nel fatto che l’uomo, intuitivamente, abbia riscontrato un’analogia fra il ruggito di un tuono ed il suono prodotto dal correre di una carrozza su una strada acciottolata. Si tratta della spiegazione apparentemente più semplice – non fosse altro che occorre molta, molta fantasia per trovare simili questi suoni, specialmente quando il fondo stradale di riferimento si muti da un’antica strada romana ad un sentiero fangoso faticosamente delineatosi nella spopolata Europa centro-settentrionale.
Esiste una seconda possibilità, che vedremo di esplorare da questo punto in avanti. Che si tratti, cioè, di un residuo di substrato. Ovverosia: qualcosa appartenente ad una cultura più antica, cui la matrice Cristiana si è andata sovrapponendo nel corso dei secoli, mutandone forma e contesto, ma del tutto incapace di rimuoverla completamente dall’immaginario popolare.

Un primo supporto per questa tesi ci viene da uno degli Autori che hanno sostanzialmente “fatto” la classicità, Pindaro. Il quale, nella sua IV Olimpica (v. 1), apostrofa il sommo Zeus come ἐλατὴρ ὑπέρτατε βροντᾶς ἀκαμαντόποδος Ζεῦ (trad. “Auriga eccelso del tuono dai piedi instancabili, Zeus…”), accennando ad un’immagine che Orazio sviluppa ancor più chiaramente nei Carmina (Libro 1, Carmen XXXIV):
Parcus deorum cultor et infrequens,
insanientis dum sapientiae
consultus erro, nunc retrorsum
uela dare atque iterare cursus
cogor relictos: namque Diespiter 5
igni corusco nubila diuidens
plerumque, per purum tonantis
egit equos uolucremque currum,
quo bruta tellus et uaga flumina,
quo Styx et inuisi horrida Taenari 10
sedes Atlanteusque finis
concutitur. Valet ima summis
mutare et insignem attenuat deus,
obscura promens; hinc apicem rapax
Fortuna cum stridore acuto
sustulit, hic posuisse gaudet.
Ovvero:
Parco de’ numi adoratore, e insolito
Folle saper finor seguendo errai;
piegar le vele e correre
or m’è forza il sentier che abbandonai.

Se con la fiamma scintillante squarcia,
qual da talore, le nubi, il sommo Giove,
e per lo cielo il rapido
carro, e i cavalli fulminanti move,

la grave terra, i fiumi erranti tremano,
trema Acheronte, e il baratro profondo
dell’odioso Tenaro,
e l’atlantico termine del mondo.

Dio che imi, e sommi mesce, il grande attenua,
e trae l’oscuro al dì. Sorte rapace
quinci il suo vol tra i gemiti
spiega, e il ferma colà dove le piace.

L’immagine di Zeus e di Giove che traspare da questi versi è ovviamente molto diversa da quella ieratica, distante, quasi immobile, che invece emerge dai più celebri versi omerici. Potremmo definirla inconsueta, non fosse che lo stesso mito, sia in Esiodo che in Ovidio, ci ricorda a chiare lettere che lo Zeus “pater hominum atque divorum” giungesse a tale saldissimo status solo dopo una lunga lotta con la precedente generazione divina, e che scacciare la minaccia di Tifeo gli sia costato una vera e propria pioggia di lampi e tuoni. Sia Pindaro che Orazio ci tramandano quindi un’immagine in un certo senso più “giovanile” della somma divinità greco-romana, qui rappresentata nel pieno delle sue funzioni quale signore del fulmine.
Riaffacciandoci all’ipotesi di partenza, potremmo accontentarci di questa lettura, ed ipotizzare che il “diavolo in carrozza” da cui siamo partiti sia semplicemente la deformazione in senso demoniaco e demonologico della primigenia figura del signore degli dèi, inchinatosi al Cristo trionfante anche in questa sua funzione. Anche in questo caso, la spiegazione più semplice mi sembra del tutto insoddisfacente. Prima di tutto, perché non ci spiega per quale motivo l’espressione idiomatica sia presente in zone che non conobbero la romanità e men che meno un barlume di cultura classica fino a tempi molto recenti.
Un primo punto di partenza ce lo fornisce lo stesso Orazio. Ragionevolmente per ragioni metriche, egli apostrofa Giove come “Diespiter”, un’espressione che in realtà pone le sue radici nella più antica cultura latina, riportando ad un passato in cui – paradossalmente, Giove non era … Giove.

Il dio che abbiamo imparato a conoscere dalle scuole medie come il supremo signore dell’Universo è infatti il risultato di un complesso parto, iniziato già prima che i Greci giungessero in Grecia ed i Latini nel Lazio. Zeus e Giove condividono infatti la stessa radice, il Proto-Indoeuropeo (PIE) *djem, da cui derivano sia i termini “dies” (lat.) che “day” (eng.), cioè “giorno”, che il termine “deus”. Nei Veda, testi sacri indiani, viene quindi ricordata una divinità antichissima, per altro già sfumatasi al tempo della loro redazione, Dyaus Pita. Figura che rappresenta un po’ la quadratura del cerchio, sia a livello linguistico (Dyaus Pita è praticamente identico al Diespiter da cui siamo ripartiti poc’anzi) che concettuale, essendo questi nient’altro che il “padre Cielo”, divino consorte di Prithvi Mata, ovverosia la Madre Terra.
Quadratura, in realtà, assai poco efficiente in quanto dell’omologo linguistico vedico, lo Zeus/Giove e noi più famigliare non trattiene molto più che il nome. E qui si ritorna al complesso processo di gestazione di cui si parlava poc’anzi. Nel mito greco, lo ieros gamos fra cielo e terra viene rappresentato sia da Zeus ed Hera, che dalla precedente coppia Urano e Gea. Ouranos, o meglio *Worsanòs è sempre un termine che indica il cielo – in questo caso, tuttavia, non tanto il Cielo luminoso del giorno, ma quello scuro grave di pioggia (varsati è infatti il termine sanscrito che indica la pioggia). Questo ci porta in un passato estremamente remoto, nella tipica prospettiva dei nomadi delle steppe euroasiatiche quali i popoli indoeuropei furono prima di raggiungere le loro sedi storiche: il germogliare della vita dalla terra subito dopo una pioggia intensa.
*Dyeus, il più antico nome di Zeus/Giove era quindi una divinità appartenente alla sfera della germinazione, e della fertilità – e diversamente sarebbe stato impossibile. Non casualmente, tra i figli di Dyaus Pita abbiamo l’Aurora, e gli Ashvins, la coppia di gemelli cocchieri che nel Mahabharata vengono identificati nei pandava (anch’essi gemelli) Nakula e Sahadeva, da Puhvel e Dumézil riconosciuti come figure della cosiddetta terza funzione indoeuropea. Di questo passato remoto del “sommo Zeus” resta qualche traccia sia nell’appellativo omerico di Eos, “dià” –generalmente tradotto come “divina”, e che in realtà significa “della progenie di Zeus” esattamente come “Dioscuri” sono Castore e Polieduce, i due gemelli, fratelli maggiori di Clitennestra ed Elena (a sua volta antica divinità della luce), spesso e volentieri apostrofati come “domatori di cavalli”.
Zeus/Giove è però il signore del fulmine, una funzione acquisita a spese di una divinità ormai dimenticata e di cui, forse, resta traccia solo nel suo epiteto “Κεραυνός” – ovvero “lanciatore di fulmine”. L’etimologia di Keraunòs è solitamente spiegata dal verbo κερα(F)ίζω ovverosia “devasto / distruggo”. Esiste però uno strano epiteto omerico di Zeus, τερπικέραυνος, solitamente tradotto come “che si delizia nella folgore”, che permette di ricostruire un originale *perkwi-peraunos nel rispetto della consolidata linguistica indoeuropea. Il che porterebbe il termine Keraunòs nel solco del più celebre *Peraunos. Da questa radice derivano infatti i nomi delle due principali divinità del tuono dei Balti e degli Slavi, Perun e Perkunas, nonché (forse) dell’originale dio vedico del fulmine Parjanya. E non solo: da *perkwu deriva anche il latino Querquus, il nome dell’albero più sacro a Zeus e come tale venerato a Dodona. Albero, per altro, sacro a Perun e Perkunas.
Da qui, avremmo la possibilità di spiegare un altro epiteto omerico tutt’altro che chiaro, ovverosia “αἰγίοχος”, solitamente tradotto con un poco coerente “portatore di Egida” - poco coerente perché l’Egida (Αιγίς), era l’impenetrabile scudo di … Atena, che questa aveva poi ornato con la testa di Medusa. Simbolismo fortissimo, cui si è ispirato il ministero della difesa americano alla realizzazione delle batterie difensive delle proprie navi da guerra (chiamato guardacaso sistema AEGIS). Esistono, certo, miti che spiegano il passaggio dell’Egida da Zeus ad Atena, ma tutti – dal primo all’ultimo, sembrano la versione ellenica delle cosiddette “ret-con”, le “continuità retroattive”, espedienti narrativi in cui un determinato evento viene modificato a posteriori per renderlo coerente con gli sviluppi degli eventi. Traducendo letteralmente, αἰγίοχος potrebbe essere letto anche come “che cavalca un carro trainato da capre”. Mettiamoci nei panni degli antichi greci, in particolare di un lettore omerico dell’età di Pericle. Immaginare Zeus, la somma divinità olimpica, l’incarnazione della legge e della giustizia, come una creatura che cavalca un carro trainato da capre poteva avere senso in alcuni riti misterici (che infatti rappresentavano una valvola di sfogo per le aporie rappresentate da riti antichi e non più compresi e men che meno accettati dalla cultura contemporanea), ma non certo nella simbologia ufficiale.
Eppure, tutto ciò ha un senso. Probabilmente, il prototipo di Zeus/Giove – Keraunòs, era strettamente associato allo zoomorfo rappresentato dalla capra/caprone. E’ una capra, infatti, che alleva Zeus sul monte Ida – la leggendaria Capra Amaltea. Ha corna di capra Zeus Ammone, il cui culto precedeva l’ellenizzazione dell’Egitto, se è vero che un suo tempio esisteva a Sparta già al tempo della Guerra del Peloponneso (Pausania, 3.18). E, attenzione: i già citati Perkunas e Perun viaggiano nella volta del cielo su un carro, trainato da due capre. E’ possibile che questa immagine sia un prestito dai prolifici (mitologicamente parlando) popoli scandinavi. E’ infatti trainato dalle capre Tanngrisnir e Tanngnjóstr il carro da guerra del più celebre Dio del Tuono, la cui corsa nel cielo è accompagnata dal detto svedese “äsen körr”. Ovverosia: “il dio in carrozza”.
Eccolo, dunque, il nostro Diavolo in carrozza. Completamente stravolto. Non più il Demonio che, in qualche modo libero dalla sua prigione infernale, percorre le strade del cielo alla ricerca di anime da dannare… no, tutt’altro: ecco il più coraggioso e generoso degli dèi, quello che più di tutti ama gli uomini, che è uscito a dar guerra alle creature infernali. Il rumore del tuono non è più, quindi, qualcosa di cui gli uomini debbano avere paura – ma i demoni, contro i quali la sua furia si rivolge per proteggere l’umanità intera.

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