mercoledì 17 agosto 2011

Amazzoni: donne da ammirare o da detestare? La seconda che hai detto ...

Agli antichi greci dobbiamo moltissimo, in termini culturali. Tuttavia, l’affetto e l’ammirazione nei loro confronti non permetteranno mai di celare l’assoluta misoginia della loro cultura. Se la segregazione sessuale praticata in molte culture contemporanee fa giustamente tuonare l’opinione pubblica occidentale, tacciando tali atteggiamenti di barbarie, è lecito e necessario ricordare che i civilissimi contemporanei di Platone ed Aristotele avessero usi e costumi probabilmente peggiori dei più rozzi ed oscurantisti pecorai Afghani e Pakistani del giorno d’oggi.

Per sottolineare una volta di più che porre la donna in una posizione sottomessa, in un certo senso esclusa dalla società – che era per definizione esclusivamente maschile, fosse la normalità del mondo ellenico basterà ricordare i toni stupiti utilizzati da Aristotele (Fragm. 607 Rose) per ricordare che le assai più libere donne etrusche banchettassero con i mariti “sdraiati sotto la stessa coperta”. Toni che si mutano nello stizzito quando la penna passa ad una delle peggiori penne dell’antichità, Teopompo di Chio, secondo il quale “presso gli etruschi le donne sono messe in comune. Si presentano sovente nude... poiché non è considerato vergognoso mostrare il proprio corpo. Stanno a banchetto, e non vicino al marito ma accanto al primo venuto e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle d’aspetto”.

Il che ci permette di riportare l’attenzione alla doppia morale greca, secondo la quale nulla era più splendido di un corpo nudo, purché maschile, ciò che diventava appunto fonte di immenso scandalo quando fosse invece femminile. A tale proposito, basta ricordare la furente reazione di Artemide, vista ignuda dall’improvvido Atteone, immediatamente mutato in cervo e come questo sbranato dai propri cani.

La pessima considerazione della donna nel mondo antico non era, intendiamoci, un’esclusiva ellenica. Dove, per altro, si riscontravano alcune eccezioni: gli ammiratissimi spartani, che al tempo stesso apparivano un po’ eccentrici per certe loro consuetudini, erano vituperati dai civilissimi ateniesi in quanto non solo alle donne morte per parto si tributavano onori analoghi agli eroi deceduti sul campo di battaglia, ma alle donne stesse si permetteva di ereditare beni propri, senza dover ricorrere ad un qualche improvvisato tutore – padre, figlio o fratello che fosse. Vale la pena ricordare che mille e cinquecento anni dopo l’emanazione delle leggi di Licurgo, l’editto di Rotari stabilisse che una donna dovesse sempre giacere sotto l’autorità di un maschio: morto il marito, si passava al padre od al figlio. In loro mancanza, ad un fratello. In loro ulteriore assenza, si sondava tutto il parentume alla ricerca del più prossimo maschio adulto disponibile.

La donna era quindi considerata qualcosa di appena più rilevante di un oggetto, e ahinoi questa disposizione la ritroviamo in quasi tutto l’universo indoeuropeo. Lasciamo stare il fatto che, già a livello PIE (Proto Indo-Europeo), esistessero forme matrimoniali (sansc. svayamvara) in cui era facoltà della donna scegliere il proprio consorte, più o meno liberamente. Un rito la cui antichità è testimoniata dalla cristallizzazione del suo momento culminante, con la deposizione di una corona sul capo del prescelto da parte della donna: ciò che fa Elena scegliendo Menelao (Iliade), ovvero Katayun prendendo Goshtasp (Shah-nameh) come proprio sposo, o Damayanti con Nala (Mahabharata). A tale proposito, ricordiamo che tutt’ora i Cristiani di rito tradizionale (siano essi cattolici di rito greco o ortodossi) celebrano il matrimonio con la deposizione delle corone nuziali, sugello alla libera scelta dei due sposi.

Passiamo alla lingua: esiste buona concordanza dei linguisti che i tre casi del PIE si siano evoluti da una primitiva distinzione fra animato ed inanimato, una dicotomia che si riscontra anche nella morfologia delle lingue PIE, specie di quelle più antiche. La lingua PIE aveva due aspetti verbali: perfettivo, proprio dell’azione compiuta ovvero inanimata, ed imperfettivo, che è quello dell’azione che si svolge. Il lessico indoeuropeo aveva quindi (almeno) due radici per tutti i termini di maggiore rilevanza sociale: il fuoco ad esempio. Dalla radice *hngwis abbiamo termini che si riferiscono al fuoco in termini “vitali”. Agni, ad esempio, è il Dio del fuoco nella cultura vedica. E’ ignis, il fuoco sacro che ondeggia e danza, forte di una propria individuale esistenza, davanti agli occhi della vestale. *Péh2ur è il fuoco inteso come qualcosa di statico, inanimato appunto. Da cui il greco πῦϱ, il moderno inglese fire. Per restare nell’ambito del confronto fra opposti – tematica cara al mondo PIE, l’acqua era sia *h2ep, che che *uodr. Da *h2ep deriva la più tarda e semplificata radice ap- che si ritrova per esempio nel termine latino “acqua” (da *h2ep > *aqw- secondo la stessa resa che da un originale “eqw-” porta a ίππος in greco e a equus in latino), nel nome del Dio latino delle acque (Neptunus), nel nome delle acque (in generale) in sanscrito (Apah) ed in persiano (Ab), ed in quello di una delle più amate divinità del mondo vedico - ovvero Apam Napat (letteralmente “il nipote delle acque”; non a caso il padre di Feridun, che usurpa buona parte dei ruoli di Apam Napat si chiama Aβtin), nonché in quello di alcuni fiumi (il celebre Avon, ad esempio, sulle cui rive nacque Shakespeare). Da *uodr abbiamo invece sia il greco ὔδοϱ che il germanico water/Wasser.

Questa distinzione si riverberava anche nei nomi di animali: solo per assimilazione e semplicità molte lingue moderne (come l’italiano) tendono a produrre il femminile dal maschile. Il cavallo può così essere sia maschile che femminile (eventualmente flesso in una sgradevole “la cavalla”), ma questa dicotomia è così radicata nella nostra mente nella nostra cultura che, quando del cavallo si prende l’elemento più connesso alla sessualizzazione, il linguaggio distingue nettamente fra stallone e giumenta, e per la stessa ragione abbiamo il focoso toro cui e la placida mucca…

In altre parole: sebbene in casi eccezionali alla donna fossero concesse alcune libertà, essa era intesa come poco più di un oggetto, ci piaccia o meno, spesso priva di un nome proprio. Lasciando a parte i casi di Elena (che probabilmente cela un’antica divinità dell’alba, la Mater Matuta latina) e di Andromaca, che Omero non a caso incesella in contesto narrativo più moderno (il personaggio del marito Ettore cela probabilmente il dio del Sole, augusto ed antichissimo antagonista del Dio del Fulmine, qui incarnato da Achille, ma Omero lo reinterpreta in un senso del tutto estraneo alla virile belligeranza del passato PIE), le due donne da cui parte la narrazione omerica si chiamano semplicemente “Figlia di Crise” (= Criseide) e “Figlia di Brise” (= Briseide), seguendo un’usanza che lo stesso Omero riprende creando nel consesso divino la figura di Dione (= “la signora Zeus”), e che era particolarmente fruttifera nel mondo indo-iranico, dove tutte le divinità femminili si chiamano “Signora…” partendo dal nome del marito (Indrani per Indra, Saraiya per Surya e così via), per non parlare dell’area slava – in cui il nome della donna era quello paterno girato al femminile, come nel caso della moglie di Igor’ (Слово о полку Игореве, Canto della Schiera di Igor’), Yaroslavna ovverosia… “figlia di Yaroslav”. Usanza che persiste nella femminilizzazione del cognome, che così flesso spesso rimpiazza il nome vero e proprio (per restare a casi recenti: Sharapova da Sharapov, Gorbaciova da Gorbaciov etc) e che ritroviamo, facendo un salto indietro, nell’area latina, ove alla donna era concesso un solo nome contro i due o addirittura tre dei fratelli maschi, impersonalmente ricavato da quello della gens di appartenenza. Non casualmente la storia romana è punteggiata da una pletora di Giulie, Porzie, Agrippine, Camille e Cornelie… le quali, per altro, solo occasionalmente erano in qualche relazione famigliare.

Proba (rispettosa delle leggi umane), Pia (rispettosa delle leggi divine), Pudica, Lanifica (che passa il suo tempo a fare la lana, e nient’altro), Domiseda (che passa tutto il suo tempo stando in casa) ed Univira (sposata ad un solo uomo): secondo Catone il Censore, o Cato Maior che dir si voglia, nessun complimento poteva essere più gradito per una donna romana d’antan che vedere scritti questi attributi sul proprio epitaffio. Premesso che la storia romana sia costellata da donne che pudicae e domisedae non dovevano essere, e men che meno lanificae, a meno che “far la lana” non si intenda per metafora di altre attività compiute fra le mura domestiche (dell’univiritas inutile parlarne, specie dopo la fine delle guerre puniche, con il sostanziale sterminio di una generazione senatoria maschile), il mondo greco-romano possedeva però un’immagine tutt’altro che fittante a quest’identikit.

Parliamo delle Amazzoni, le mitiche donne guerriere che tanto hanno colpito l’immaginario collettivo occidentale da rendere proverbiale etichettare come “amazzone” qualsiasi donna di natura indipendente, atletica, e purtuttavia di aspetto indubitabilmente femminile. Proprio da questo dettaglio vale la pena partire, spazzando via la vecchia etimologia del loro nome. Secondo Erodoto, che tanto ci ha tramandato ma che pure ci ha trasmesso un numero spaventoso di erronee etimologie, il greco Ἀμαζών sarebbe derivato dal fatto che queste si “privassero del seno” (a-mastòs) per meglio tirare con l’arco. A conti fatti, e considerando che le ottime performances delle tiratrici con l’arco moderne mettono in dubbio l’opportunità di una simile ferita rituale, è più probabile che il termine greco sia un prestito da qualche lingua iranica: prima di tutto, Esichio di Alessandria ci tramanda una glossa “ἁμαζακάραν· πολεμεῖν. Πέρσαι” che possiamo tradurre così: “hamazakàran: far la guerra. Persiano”. Considerando che l’essere donne guerriere fosse la più specifica peculiarità di queste figure mitologiche, l’ipotesi è molto suggestiva. D’altra parte, va ricordato che Erodoto, nonostante in Persia avesse viaggiato in lungo e in largo, con le lingue iraniche non doveva essere molto a suo agio: celeberrima a tale proposito l’analoga “cantonata” che lo portò a confondere il termine “Anûšiya” ovverosia “compagni” con “Anauša” cioè “immortali”, da cui l’immagine tutta occidentale dei “10,000 Immortali”, che ha eclissato l’assai più consona denominazione dell’élite di un esercito come “comitatus” del re (e tradizionale, oltre che consona: senza scomodare Re Artù e Carlo Magno ed i rispettivi Cavalieri, della Tavola Rotonda o Paladini, i corpi d’élite degli eserciti germanici e slavi erano composti dai “compagni” del Re). Ad avvalorare l’etimologia di Esichio, il fatto che le Amazzoni siano poste da Erodoto nell’area scitica, corrispondente all’odierna Ucraina meridionale, con qualche divagazione verso le steppe centro-asiatiche. Aree in cui, all’epoca, vivevano stirpi forse pre-slave, forse iraniche, le une e le altre comunque linguisticamente affini al persiano.
Ad onor del vero, la localizzazione delle Amazzoni è parecchio ondivaga fra le varie fonti: Plutarco, nella Vita di Teseo, ad esempio riprende una versione più antica dello stesso Erodoto, e le pone in area Pontica, ma su tutt’altra sponda del Mar Nero – quella anatolica. Amazzoni avrebbero fondato Smirne, Efeso, Sinope e Paphos, le più grandi città dell’area ionica prive di un attendibile pedigree ellenico, e probabilmente fondate da popolazioni anatoliche assai prima che gli Achei, in fuga o meno dalla Grecia sotto la pressione Dorica, mettessero piede in Asia Minore. Eschilo, che scrive grossomodo nello stesso periodo di Erodoto, con una palese ret-con, risolse l’aporia affermando che sì, in principio esse vissero in Scizia, per l’esattezza nella Tauride, l’odierna Crimea e che poi, in un secondo tempo, emigrarono in area Anatolica, nei pressi di Temiscira, sul fiume Termodone. Una parte di esse, invece, sarebbe emigrata verso la palude Meotide, l’odierno mare di Azov, dove si sarebbe congiunta con un popolo nomade andando a costituire la stirpe dei Sarmati. A dire il vero, gli storiografi dell’antichità sembra facciano a gara per inventarsi sedi ed origini sempre più esotiche per queste donne guerriere. Gneo Pompeo Trogo, agganciandosi ad un più antico racconto di Eforo, le immagina discendenti di due principesse (Sylisios e Scolopicus) della Scizia stabilitesi in Cappadocia (altro esempio di palese ret-con …); Filostrato sui monti Tauri, l’odierno Toros Dağları nella Turchia meridionale; Ammiano Marcellino le fa originariamente vicine degli Alani, guardacaso l’unico popolo di lingua persiana nell’oceano di invasori di germanici che investirono l’Impero Romano d’Occidente; Procopio di Cesarea le posiziona nel Caucaso. Le Amazzoni spuntano persino nella più improbabile vicenda storica dell’antichità, quella di Alessandro Magno: secondo la tradizione, sulla via del ritorno, Alessandro sarebbe stato avvicinato dalle amazzoni della regina Thalestris, la quale avrebbe permesso al re del mondo un agevole ritorno a casa purché si fosse congiunto con lui per 13 giorni e 13 notti, allo scopo di concepire un erede (o meglio: una erede). A salvarci almeno da quest’apparizione pseudostorica è una nota di Plutarco, secondo il quale, quando lo storico Onesicrito prese a leggere suddetto resoconto al committente re Lisimaco di Tracia, che della spedizione originale aveva fatto parte con un ruolo di estrema rilevanza, questi reagì mettendosi a sghignazzare chiedendo al proprio storico dove lui si fosse trovato al compiersi dei suddetti eventi, visto che non se ne ricordava affatto. Interessante tuttavia che, ancora una volta, le Amazzoni siano associate all’Asia, ed in particolare ad una sua certa area, quella solcata dall’invisibile confine fra i popoli iranici civilizzati (i persiani, per farla breve) e quelli più irriducibilmente nomadici (gli sciti, i sarmati, etc).

In sintesi: una certa corrente di pensiero dell’antichità (1) posiziona le amazzoni in area orientale, al confine fra Europa ed Asia, in quella vasta terra di nessuno che, per altro, siamo abituati ormai a considerare la patria della cultura PIE, in quelle che (2) l’antichità greca era abituata ad immaginare come le terre selvagge per antonomasia e (3) le immagina in qualche modo associate alla cultura iranica. Queste basi valgono fino alla tarda antichità, quando improvvisamente l’Occidente è costretto a riscoprire il freddo e lontano nord dell’Europa, che improvvisamente si popola di amazzoni: Claudiano considera Amazzoni alcune donne gote catturate da Aureliano, Paolo Diacono le pone al centro della Germani, mentre Adamo da Brema le localizza sul mar Baltico. L’ennesima ret-con riguardante le amazzoni la compie quindi Jordanes che, nella sua Getica (VI secolo circa) risolve il ghiribizzo storico affermando che, come già evidenziato da Claudiano, le Amazzoni siano di originaria stirpe gotica, i quali Goti (per tutta felicità dei più tardi Alano da Brema e Ammiano Marcellino) effettivamente vissero sia sul mar Baltico che nel cuore della Germania durante la loro lunga peregrinazione verso la Scizia (da cui effettivamente furono scacciati dall’orda Unna… ma questa è un’altra storia), in questo viaggio preceduti da un clan al femminile, guidato dalle principessa Marpeia e Lampedo, che poi avrebbero fondato, sia in Scizia che in Cappadocia, i regni delle Amazzoni. A parte il fatto che la versione di Jordanes risulta semplicemente un collage di Claudiano e degli acconti di Trogo e Diodoro Siculo (a tale proposito, non è un probabilmente un caso che al latineggiante Lampedo, area semantica della luce, faccia da contraltare nella versione originaria greca un nome chiaramente corradicalico di Sole, Sylisios) è abbastanza interessante notare che questa leggenda ricalchi, volta al femminile, il classico plot narrativo relativo alla fondazione di un popolo o di una città. Fratelli erano Ibor e Aion, fratelli Romolo e Remo, e così via: costante di tutte queste vicine è che l’installarsi della casa regia dell’uno sia permessa dal sacrificio dell’altro, sia esso come morte rituale o vero e proprio sacrificio.

Con il termine della Classicità, le Amazzoni non sparirono affatto. Così come non smise di migrare il loro regno: Cristoforo Colombo, Francisco de Orellana e Walter Raleigh ci narrano di Amazzoni o presunte tali sparpagliate per l’appena scoperto Sud America, al punto che il suo fiume più celebre è infatti il Rio delle Amazzoni. Il che ci porta a ciò che il classicista Peter Walcot ha saputo sintetizzare in queste poche parole:
“Wherever the Amazons are located by the Greeks, whether it is somewhere along the Black Sea in the distant north-east, or in Libya in the furthest south, it is always beyond the confines of the civilized world. The Amazons exist outside the range of normal human experience”.

Il che ci permette di completare la struttura circolare di questa narrazione, e di tornare al punto di partenza. Ovverosia: cosa sono realmente le Amazzoni? Una prima ipotesi è che esse siano l’ennesima figura di substrato antichissimo, in qualche modo demonizzato in quanto appartenente ad una cultura spazzata via dall’invasione indoeuropea. E’ un meccanismo, questo, frequentissimo: il dio del tuono si tramuta in diavolo, una divinità lunare nella strega Baba Yaga, e così via. Secondo Johann Jakob Bachofen, esse sarebbero quindi il lascito di una mitica era in cui le sorti dell’umanità non gravitavano nelle mani degli uomini – ma delle donne: il cosiddetto matriarcato. Secondo l’intepretazione convenzionale, i popoli Indoeuropei avrebbero travolto popolazioni il cui pantheon era governato da divinità femminili, come la Magna Mater che tanto spesso troviamo nelle creazioni artistiche neolitiche. Probabilmente, le Amazzoni facevano parte di questo culto, o di altre religioni similari. A parte il fatto che l’ipotesi di Bachofen si è dimostrata non meno pseudostorica di altre astrazioni ottocentesche, l’assimilazione di alcune divinità femminili nei vari pantheon PIE è cosa ben dimostrata, e non da poco tempo. Afrodite/Venere, Freya, Athena, Artemide… sono probabilmente prodotti di “importazione” di religioni mediterranee e parenti prossime della dea Hannahaaa urrita, a sua volta substrato della più famosa Inanna/Ishtar/Astarte mesopotamica e fenica. Ciò, attenzione, non significa affatto che il pantheon di questi popoli fosse solo femminile: gli dèi sumeri sono un’allegra compagine non meno colorita di quella olimpica, con le relative quote rosa, e comunque i posti dominanti sono occupati da divinità maschili, come Anu, Marduk/Assur, Enlil, Ea…

Insomma: lasciando perdere il matriarcato, le Amazzoni sembrano appartenere alla stessa classe di figure mitologiche che annovera al suo interno i Giganti, ma con tutt’altro significato.
I Giganti rappresentano le forze primigenie e più violente della natura, ribelli all’ordine costituito dalla divinità ordinatrice suprema (solitamente, *Dyews o suoi omologhi), contro i quali si scatena pertanto la furia del dio del Fulmine che da ad essi battaglia o in un remoto passato (chiudendo il conto una volta per tutte, come Zeus ed Indra), ciclicamente (come Indra stesso nei confronti degli Asura), o continuamente (come Thor), in questi ultimi due casi comunque ai confini del mondo conosciuto in quanto, diversamente i confini sacri dell’orbe ordinata non potrebbero ospitare la lotta fra ordine e disordine (o per meglio dire, diverso ordine naturale).

Le Amazzoni sono un segno di aperta ribellione all’ordine costituito della società: il loro regno si trova oltre i confini della legge e dell’ordine umano. In un certo senso, esse sono creature crepuscolari, che la fantasia umana pone in una zona di confine fra ciò che è stato oggetto di ordinamento da parte della ragione umana e ciò che rimane privo di qualsiasi logos. Donne sono le Erinni. Donne sono le Sirene. Donne sono le Arpie. Donne sono appunto le Amazzoni. Le quali, attenzione, non nascono tali e quali come Atena dalla testa di Zeus, o come le Walkirie. Diventano tali, almeno in principio, in opposizione a qualcosa o qualcuno. Diventano donne guerriere Lampedo e Marpeia per proteggere la stirpe dei Goti durante l’assenza dell’esercito. Idem per Sylisios e Scolopicus.

D’altro canto, se contestualizziamo il concetto di Amazzone, cosa poteva esservi di più rivoluzionario per le società PIE di una donna guerriera? In una società come quella PIE impegnata in guerre continue, necessarie all’espansione ed alla conquista di nuovi territori, si tratta di una scelta analoga a quella delle suffragette che reclamano il diritto di voto, o delle femministe anni ’60 che bruciano il proprio reggiseno.
Ecco che l’immagine convenzionale delle Amazzoni comincia a sgretolarsi, e la moderna ammirazione lascia spazio all’oscenità ed all’imbarazzo che doveva ammantarle in epoca classica. Una donna che combatte (ecco che l’etimologia del loro nome collettivo acquista bel più profondo senso di una mastectomia bellica)! Una donna, cioè – un oggetto, una creatura priva di propria forza vitale (ricordiamoci che secondo Eschilo, la donna non germina il figlio, ma si limita ad incubare il seme del maschio), che cerca di usurpare un ruolo che da sempre appartiene al polo maschile, al punto che il termine latino “vir” significa, seguendo il contesto, sia uomo che soldato che eroe! Una donna che aspira allo stesso kleòs di Achille!
E probabilmente non è un caso che un fil rouge leghi la figura di Achille (guarda caso il Dio del Fulmine in disguise) e le Amazzoni. E’ un’Amazzone una delle più celebri vittime di Achille, Pentiselea, e sono le Amazzoni che, nell’aftermath della guerra di Troia tentano di distruggere il tumulo funerario costruito da Tetide sulla foce del Danubio. Non apostrofabile come Amazzone, ma sicuramente “amazzoniforme” è Brunilde, la terribile regina di Islanda che – guardacaso, l’omologo nordico di Achille, Sigurdr/Sigfrido, combatte e sconfigge per conto altrui. A tale proposito, mettiamo subito “da parte” l’esito finale del duello. Nel Nibelungenlied in modo meno chiaro, e nelle saghe norrene più esplicitamente, l’incontro fra l’eroe e l’Amazzone si conclude con Brunilde che, sconfitta, viene in un modo o nell’altro deflorata da Sigurdr/Sigfrido (ciò che sarà causa della sua successiva caduta). Persa la verginità, l’apparentemente invincibile donna guerriera diventa sorprendentemente vulnerabile e fragile, dominata persino dall’imbelle marito Hagen, elemento che ci porta ad un altro mito del nord, in questo caso di area celtica – quello di Cu Chulainn. Fermiamoci un attimo, e rivediamo gli eventi che ci suoneranno sorprendentemente famigliari e simili a quanto appena narrato. Cu Chulainn, giovane e bello (tranne quando si infuria, allorché subisce una trasformazione degna di Bruce Banner quando muta nell’incredibile Hulk) vorrebbe sposarsi con Emer, la figlia di re Forgall Monach. Questi, in realtà, non vede troppo bene l’unione fra la prole ed il figlio di Lugh (antica divinità affine ad Apollo, vista con occhio malevolo all’epoca della redazione dei canti dell’Ulster, all’alba della cristianizzazione): con una scusa, acconsente al matrimonio a patto che Cu Chulainn si rechi nella lontana terra di Alba (beh, non poi così lontana, trattandosi della Scozia) per apprendere le arti del più celebre guerriero dell’isola: Scàthach. Guerriero che è in realtà una donna. Cu Chulainn, durante il suo addestramento, apprende l’uso di un’arma terrificante – la lancia Gae Bulg, il cui nome è tutto un programma: “lancia di mortale dolore” – che diventerà un po’ il suo marchio di fabbrica. Sempre durante l’apprendistato, l’eroe dell’Ulster affronterà Aife, la sorella – talora definita gemella, di Scàthach, giunta in Alba per una redde rationem con quest’ultima. La vittoria arride a Cu Chulainn il quale, però, non la uccide: la priva della verginità, anche in questo caso potremmo dire “riducendola allo stato laicale”, ovverosia privandola dei poteri di guerriera, e senza saperlo concepisce con lei il figlio Connla, che nella migliore tradizione tragica sarà ucciso proprio da Cu Chulainn molti anni dopo proprio grazie all’uso della mortale Gae Bulg.

Tornando al confronto con Achille: le pseudo-storiche incursioni delle Amazzoni verso la Tracia sono spiegate come forma di vendetta contro l’assassino della loro celebre regina. Considerando che non v’era, nella cultura PIE, atto più empio del dissacrare le spoglie di un eroe morto, la vera e dispregiativa natura della Amazzoni continua ad apparire con maggiore chiarezza. Il che permette di render merito di una delle più celebri ed al tempo stesso enigmatiche creazioni dell’Impero Greco Medievale, il Dighenis Akritas (Διγενῆς Ἀκρίτας). Essendo opera meno celebre di quelle precedentemente citate, mi permetto una maggiore divagazione sulla trama: Dighenìs (letteralmente “doppia stirpe”) è il nome d’arte di Basilio, figlio di una donna cristiana e di un Emiro arabo che, vuoi per amore, vuoi per grazia, si converte e diventa difensore dei confini dell’Impero. Il contesto storico è infatti rappresentato dalle guerre Greco-Arabe combattute fra 7° e 11° secolo, mentre quello geografico è costituito dall’Alta Mesopotamia, un’area di confine in cui eventi reali come quello che da lo spunto alla storia non erano affatto infrequenti. All’epoca, la salvaguardia dei confini era compito dei cosiddetti “akriti”, soldati di confine, nel cui corpo Dighenìs/Basilio entra dalla più tenera età: l’aspetto per noi più interessante è che, pressoché da subito, il cristiano e medievale Basilio fagocita topoi e vicende proprie di un tipico eroe PIE. Per prima cosa, cresce ad una velocità incredibile, quindi poco più che bambino ammazza due orsi, un cervo ed un leone a mani nude, degno erede dei vari Sigurdr, Achille, Ulisse, Arjuna e chi più ne ha più ne metta. Infine completa la propria adolescenza conquistandosi (o meglio: rapendo) la propria sposa dopo essersi dichiarato e dopo avere vinto in duello il precedente tutore della donna, secondo i dettami del codice d’onore eroico PIE: in sostanzialmente tutte le culture PIE, rapire con l’inganno una donna e possederla era considerato atto disonorevole, e come tale viene interpretato dai Dioscuri il tentativo di rapimento di Elena da parte di Teseo, e quindi della stessa Elena da parte di Paride. Di contro, se Paride avesse vinto a duello Menelao, nessuno avrebbe visto alcunché di illecito nell’appropriarsi della suddetta sposa. Se già questi eventi sembrano un vero e proprio fossile vivente, due successivi episodi nella saga di Dighenis Akritas ci fanno capire come questo romanzo in versi bizantino sia figlio diretto di un passato assai più remoto della sua composizione storica. Per prima cosa, cioè, Dighenis completa il proprio passaggio dall’adolescenza all’età adulta uccidendo … un drago, che tenta di rapirgli la moglie e che, in forma umana, ha le classiche tre teste che ci richiamano i vari Gerione, Azi Dahak e così via. Per non farsi mancare nulla del pedigree eroico, Dighenis elimina anche un ulteriore “mostro a tre teste”, in questo caso rappresentato dai tre capi degli ἀπελάται, un gruppo di banditi che tenta di affrontarlo in un singolo duello. Il che, ancora una volta, ci fa capire che dietro la maschera di Dighenis si celi l’eroe-tipo PIE che millenni di letteratura hanno visto ora come Achille, ora come Arjuna, ora come Cu Chulainn, ora come Artù. Possibile che un eroe dell’occidente medievale sia in grado di emergere improvvisamente dal passato mitologico, per di più ammantato di tutti gli stilemi propri dell’Eroe per antonomasia, l’incarnazione umana del Dio del Fulmine? Possibilissimo quando consideriamo il luogo dove il DA si svolge. Il confine. La terra di nessuno. Lo spazio che non è né cristiano né islamico. L’area crepuscolare. In questo spazio, la fantasia può correre e posizionare quegli eroi e quelle storie che il mondo civilizzato ed urbano non può più ospitare. In questo vuoto, gli antichi dèi e le loro storie possono ancora vivere purché – come il coevo Feridun, si sappiano ammantare di un velo, invero piuttosto sottile, che li renda compatibili alla nuova religione: così, esattamente come Azi Dahak diventa Zahhak, l’arabo invasore, spinto al male da Satana, il Drago che Dighenis uccide è interpretabile nella scia dei dragoni uccisi a schiere da santi cristiani nel corso del medioevo, ovverosia dirette incarnazione del demonio. Allo stesso modo, quando Dighenis morirà (e come Agamennone, sarà nel momento di sua massima vulnerabilità, nella vasca da bagno…), sarà cristiano il suo funerale come quello di Sigfrido nel Nibelungenlied, ma tutto il contorno echeggerà del funerale di Patroclo o della singola pira di Sigfrido, o dell’infinito numero che segna la notte dell’ultima battaglia del Mahabharata….
Bene. Con queste premesse, non è strano che Basilio possa – anzi: debba confrontarsi con l’altra archetipica creatura crepuscolare di cui abbiamo parlato, l’Amazzone. Maximu (o Maximò) e Dighenis si incontrano in un episodio assai articolato, la cui stranezza ha fatto versare i proverbiali fiumi di inchiostro. Andiamo con ordine. L’incontro avviene sulle rive di un fiume: Maximu è stata chiamata in causa dagli apelàti messi in fuga da Basilio, e si interpone fra il guado del fiume stesso e l’inseguito dei briganti.
Basilio e Maximo si confrontano, combattono aspramente finché la scena non si conclude nel modo più inaspettato: i due fanno l’amore sulla stessa erba che aveva ospitato il loro duello. Pochi minuti dopo, Dighenis si allontana, riprende l’inseguimento degli apèlati … poi ci ripensa, torna indietro ed in un baleno – ovverosia, in due sbrigativissimi versi, uccide la donna.

In questa scena c’è qualcosa di sostanzialmente incomprensibile per la mentalità greca medievale – ed infatti l’intelligentia letteraria bizantina faticò molto a metabolizzare questa digressione, così come molti commentatori odierni. Un primo chiarimento diventa possibile nel momento in cui riportiamo alla memoria le vicende di Sigurdr e Cu Chulainn. Che probabilmente discendono dallo stesso prototipo. D’altro canto, questi episodi se ne discostano in modo radicale per la conclusione: Brunilde morirà, ma in altre circostanze, e sia lei che Aife non saranno direttamente uccise dall’incarnazione del dio del Fulmine.
Maximu muore, uccisa in modo quasi barbaro da Basilio. Perché? Prima faremmo meglio ad interrogarci sul perché le altre donne guerriere non facciano la medesima fine. Il che ci riporta alla natura dell’Amazzone. La sua forza, impareggiabile per qualsiasi umano privo dei sovrumani e quasi magici poteri dell’Incarnazione del Dio del Fulmine, dipende dall’essersi posta fuori da un sistema preordinato, ciò che è rappresentato dalla sua prolungata ed innaturale verginità. Nel momento in cui l’Eroe la sconfigge, egli la trascina nuovamente nella sfera della preordinata femminilità. La morte dell’Amazzone diventa quindi un surplus – anzi, più che inutile, quasi una violenza alla natura. Allo stesso modo, dopo il lungo duello che ha preceduto la consumazione dell’amore, Basilio dispone di Maximu con sorprendente facilità, irrisoria rispetto a prima. Il che, nell’ottica citata, ha la sua piena logica: prendendone la verginità, egli ha strappato l’amazzone al crepuscolo, l’ha ricondotta ad una delle immagini (amante, moglie, madre) che tipicamente la cultura PIE è in grado di metabolizzare ed accettare. Così facendo, ha annullato i suoi “superpoteri”. Perché ucciderla, allora?
Perché Dighenis, cristiano in superficie, e profondamente pagano nel suo nucleo concettuale, aspira a quell’onore immortale che muoveva gli eroi omerici. In epoca omerica, il suo adulterio sarebbe passato inosservato. Ma i tempi sono cristiani. La conquista e la seduzione di Maximu sono un adulterio – un peccato. Egli pertanto la annienta. Annulla l’unica ombra alla conquista del kleos che lo muove sin dall’infanzia.

martedì 16 agosto 2011

Il "Diavolo in Carrozza": dal dialetto parmigiano alle vette dell'Olimpo, e ritorno

Le tempeste sono una delle più spettacolari rappresentazioni della forza distruttrice della natura. Il tuono ed il fulmine rappresentano, a loro volta, i principali attori di uno show che, da sempre, viene guardato dall’uomo con un’indissolubile mescolanza di timore ed ammirazione. Prima che la scienza moderna arrivasse a spiegarci che dietro queste manifestazioni naturali vi siano processi fisici relativamente semplici, la fantasia e l’ingegno umano hanno ripetutamente cercato delle spiegazioni che fossero più o meno razionali. Ancora oggi, una diffusa espressione dialettale saluta il toneggiare come “il diavolo in carrozza” – frase che sembra fatta ad hoc per terrorizzare i bambini nelle notti di tempesta e che, di primo acchito, accoglie e materializza nel Male assoluto giudaico-cristiano le ancestrali paure dell’uomo nei confronti delle forze più devastanti di un mondo che è in grado di comprendere fino ad un certo punto.
Ebbene: questa semplice ed ingenua spiegazione pseudo-scientifica nasconde ben altra storia, dai risvolti del tutto inaspettati.

Per prima cosa, l’espressione “il diavolo in carrozza” ha una diffusa rappresentazione geografica. Si ritrova, con varianti locali più o meno accentuate, in quasi tutta l’Italia del Nord ed in alcune aree del meridione. Valicate le Alpi, essa è attestata in alcune aree della Germania, in Svezia, e più in generale in area baltica. La prima e più ovvia spiegazione risiede nel fatto che l’uomo, intuitivamente, abbia riscontrato un’analogia fra il ruggito di un tuono ed il suono prodotto dal correre di una carrozza su una strada acciottolata. Si tratta della spiegazione apparentemente più semplice – non fosse altro che occorre molta, molta fantasia per trovare simili questi suoni, specialmente quando il fondo stradale di riferimento si muti da un’antica strada romana ad un sentiero fangoso faticosamente delineatosi nella spopolata Europa centro-settentrionale.
Esiste una seconda possibilità, che vedremo di esplorare da questo punto in avanti. Che si tratti, cioè, di un residuo di substrato. Ovverosia: qualcosa appartenente ad una cultura più antica, cui la matrice Cristiana si è andata sovrapponendo nel corso dei secoli, mutandone forma e contesto, ma del tutto incapace di rimuoverla completamente dall’immaginario popolare.

Un primo supporto per questa tesi ci viene da uno degli Autori che hanno sostanzialmente “fatto” la classicità, Pindaro. Il quale, nella sua IV Olimpica (v. 1), apostrofa il sommo Zeus come ἐλατὴρ ὑπέρτατε βροντᾶς ἀκαμαντόποδος Ζεῦ (trad. “Auriga eccelso del tuono dai piedi instancabili, Zeus…”), accennando ad un’immagine che Orazio sviluppa ancor più chiaramente nei Carmina (Libro 1, Carmen XXXIV):
Parcus deorum cultor et infrequens,
insanientis dum sapientiae
consultus erro, nunc retrorsum
uela dare atque iterare cursus
cogor relictos: namque Diespiter 5
igni corusco nubila diuidens
plerumque, per purum tonantis
egit equos uolucremque currum,
quo bruta tellus et uaga flumina,
quo Styx et inuisi horrida Taenari 10
sedes Atlanteusque finis
concutitur. Valet ima summis
mutare et insignem attenuat deus,
obscura promens; hinc apicem rapax
Fortuna cum stridore acuto
sustulit, hic posuisse gaudet.
Ovvero:
Parco de’ numi adoratore, e insolito
Folle saper finor seguendo errai;
piegar le vele e correre
or m’è forza il sentier che abbandonai.

Se con la fiamma scintillante squarcia,
qual da talore, le nubi, il sommo Giove,
e per lo cielo il rapido
carro, e i cavalli fulminanti move,

la grave terra, i fiumi erranti tremano,
trema Acheronte, e il baratro profondo
dell’odioso Tenaro,
e l’atlantico termine del mondo.

Dio che imi, e sommi mesce, il grande attenua,
e trae l’oscuro al dì. Sorte rapace
quinci il suo vol tra i gemiti
spiega, e il ferma colà dove le piace.

L’immagine di Zeus e di Giove che traspare da questi versi è ovviamente molto diversa da quella ieratica, distante, quasi immobile, che invece emerge dai più celebri versi omerici. Potremmo definirla inconsueta, non fosse che lo stesso mito, sia in Esiodo che in Ovidio, ci ricorda a chiare lettere che lo Zeus “pater hominum atque divorum” giungesse a tale saldissimo status solo dopo una lunga lotta con la precedente generazione divina, e che scacciare la minaccia di Tifeo gli sia costato una vera e propria pioggia di lampi e tuoni. Sia Pindaro che Orazio ci tramandano quindi un’immagine in un certo senso più “giovanile” della somma divinità greco-romana, qui rappresentata nel pieno delle sue funzioni quale signore del fulmine.
Riaffacciandoci all’ipotesi di partenza, potremmo accontentarci di questa lettura, ed ipotizzare che il “diavolo in carrozza” da cui siamo partiti sia semplicemente la deformazione in senso demoniaco e demonologico della primigenia figura del signore degli dèi, inchinatosi al Cristo trionfante anche in questa sua funzione. Anche in questo caso, la spiegazione più semplice mi sembra del tutto insoddisfacente. Prima di tutto, perché non ci spiega per quale motivo l’espressione idiomatica sia presente in zone che non conobbero la romanità e men che meno un barlume di cultura classica fino a tempi molto recenti.
Un primo punto di partenza ce lo fornisce lo stesso Orazio. Ragionevolmente per ragioni metriche, egli apostrofa Giove come “Diespiter”, un’espressione che in realtà pone le sue radici nella più antica cultura latina, riportando ad un passato in cui – paradossalmente, Giove non era … Giove.

Il dio che abbiamo imparato a conoscere dalle scuole medie come il supremo signore dell’Universo è infatti il risultato di un complesso parto, iniziato già prima che i Greci giungessero in Grecia ed i Latini nel Lazio. Zeus e Giove condividono infatti la stessa radice, il Proto-Indoeuropeo (PIE) *djem, da cui derivano sia i termini “dies” (lat.) che “day” (eng.), cioè “giorno”, che il termine “deus”. Nei Veda, testi sacri indiani, viene quindi ricordata una divinità antichissima, per altro già sfumatasi al tempo della loro redazione, Dyaus Pita. Figura che rappresenta un po’ la quadratura del cerchio, sia a livello linguistico (Dyaus Pita è praticamente identico al Diespiter da cui siamo ripartiti poc’anzi) che concettuale, essendo questi nient’altro che il “padre Cielo”, divino consorte di Prithvi Mata, ovverosia la Madre Terra.
Quadratura, in realtà, assai poco efficiente in quanto dell’omologo linguistico vedico, lo Zeus/Giove e noi più famigliare non trattiene molto più che il nome. E qui si ritorna al complesso processo di gestazione di cui si parlava poc’anzi. Nel mito greco, lo ieros gamos fra cielo e terra viene rappresentato sia da Zeus ed Hera, che dalla precedente coppia Urano e Gea. Ouranos, o meglio *Worsanòs è sempre un termine che indica il cielo – in questo caso, tuttavia, non tanto il Cielo luminoso del giorno, ma quello scuro grave di pioggia (varsati è infatti il termine sanscrito che indica la pioggia). Questo ci porta in un passato estremamente remoto, nella tipica prospettiva dei nomadi delle steppe euroasiatiche quali i popoli indoeuropei furono prima di raggiungere le loro sedi storiche: il germogliare della vita dalla terra subito dopo una pioggia intensa.
*Dyeus, il più antico nome di Zeus/Giove era quindi una divinità appartenente alla sfera della germinazione, e della fertilità – e diversamente sarebbe stato impossibile. Non casualmente, tra i figli di Dyaus Pita abbiamo l’Aurora, e gli Ashvins, la coppia di gemelli cocchieri che nel Mahabharata vengono identificati nei pandava (anch’essi gemelli) Nakula e Sahadeva, da Puhvel e Dumézil riconosciuti come figure della cosiddetta terza funzione indoeuropea. Di questo passato remoto del “sommo Zeus” resta qualche traccia sia nell’appellativo omerico di Eos, “dià” –generalmente tradotto come “divina”, e che in realtà significa “della progenie di Zeus” esattamente come “Dioscuri” sono Castore e Polieduce, i due gemelli, fratelli maggiori di Clitennestra ed Elena (a sua volta antica divinità della luce), spesso e volentieri apostrofati come “domatori di cavalli”.
Zeus/Giove è però il signore del fulmine, una funzione acquisita a spese di una divinità ormai dimenticata e di cui, forse, resta traccia solo nel suo epiteto “Κεραυνός” – ovvero “lanciatore di fulmine”. L’etimologia di Keraunòs è solitamente spiegata dal verbo κερα(F)ίζω ovverosia “devasto / distruggo”. Esiste però uno strano epiteto omerico di Zeus, τερπικέραυνος, solitamente tradotto come “che si delizia nella folgore”, che permette di ricostruire un originale *perkwi-peraunos nel rispetto della consolidata linguistica indoeuropea. Il che porterebbe il termine Keraunòs nel solco del più celebre *Peraunos. Da questa radice derivano infatti i nomi delle due principali divinità del tuono dei Balti e degli Slavi, Perun e Perkunas, nonché (forse) dell’originale dio vedico del fulmine Parjanya. E non solo: da *perkwu deriva anche il latino Querquus, il nome dell’albero più sacro a Zeus e come tale venerato a Dodona. Albero, per altro, sacro a Perun e Perkunas.
Da qui, avremmo la possibilità di spiegare un altro epiteto omerico tutt’altro che chiaro, ovverosia “αἰγίοχος”, solitamente tradotto con un poco coerente “portatore di Egida” - poco coerente perché l’Egida (Αιγίς), era l’impenetrabile scudo di … Atena, che questa aveva poi ornato con la testa di Medusa. Simbolismo fortissimo, cui si è ispirato il ministero della difesa americano alla realizzazione delle batterie difensive delle proprie navi da guerra (chiamato guardacaso sistema AEGIS). Esistono, certo, miti che spiegano il passaggio dell’Egida da Zeus ad Atena, ma tutti – dal primo all’ultimo, sembrano la versione ellenica delle cosiddette “ret-con”, le “continuità retroattive”, espedienti narrativi in cui un determinato evento viene modificato a posteriori per renderlo coerente con gli sviluppi degli eventi. Traducendo letteralmente, αἰγίοχος potrebbe essere letto anche come “che cavalca un carro trainato da capre”. Mettiamoci nei panni degli antichi greci, in particolare di un lettore omerico dell’età di Pericle. Immaginare Zeus, la somma divinità olimpica, l’incarnazione della legge e della giustizia, come una creatura che cavalca un carro trainato da capre poteva avere senso in alcuni riti misterici (che infatti rappresentavano una valvola di sfogo per le aporie rappresentate da riti antichi e non più compresi e men che meno accettati dalla cultura contemporanea), ma non certo nella simbologia ufficiale.
Eppure, tutto ciò ha un senso. Probabilmente, il prototipo di Zeus/Giove – Keraunòs, era strettamente associato allo zoomorfo rappresentato dalla capra/caprone. E’ una capra, infatti, che alleva Zeus sul monte Ida – la leggendaria Capra Amaltea. Ha corna di capra Zeus Ammone, il cui culto precedeva l’ellenizzazione dell’Egitto, se è vero che un suo tempio esisteva a Sparta già al tempo della Guerra del Peloponneso (Pausania, 3.18). E, attenzione: i già citati Perkunas e Perun viaggiano nella volta del cielo su un carro, trainato da due capre. E’ possibile che questa immagine sia un prestito dai prolifici (mitologicamente parlando) popoli scandinavi. E’ infatti trainato dalle capre Tanngrisnir e Tanngnjóstr il carro da guerra del più celebre Dio del Tuono, la cui corsa nel cielo è accompagnata dal detto svedese “äsen körr”. Ovverosia: “il dio in carrozza”.
Eccolo, dunque, il nostro Diavolo in carrozza. Completamente stravolto. Non più il Demonio che, in qualche modo libero dalla sua prigione infernale, percorre le strade del cielo alla ricerca di anime da dannare… no, tutt’altro: ecco il più coraggioso e generoso degli dèi, quello che più di tutti ama gli uomini, che è uscito a dar guerra alle creature infernali. Il rumore del tuono non è più, quindi, qualcosa di cui gli uomini debbano avere paura – ma i demoni, contro i quali la sua furia si rivolge per proteggere l’umanità intera.