martedì 19 luglio 2011

Il capolavoro di Pushkin: Evgeny Onegin. E la letteratura russa non fu più la stessa (parte 1)

Lo Evgeny Onegin (Евгений Онегин: attenzione, ricordo ai non russofoni che la “O” non accentata si legge “A”) di Alexander Pushkin rappresenta un punto di assoluto non ritorno nella storia della letteratura russa. Mutatis mutandis, si pone per le lettere russe allo stesso livello della “Divina Commedia” di Dante, del “Cid” di Corneille, del Don Quixote di Cervantes e delle tragedie di Shakespeare: dopo la sua pubblicazione, nulla sarà più uguale a prima.

Dopo una presentazione così altisonante, e dati i rutilanti paragoni, chi dell'Onegin nulla sa, potrebbe immaginarsi una storia dal tono quantomeno epico. Nulla di tutto ciò. Lo Evgeny Onegin è un poema – un romanzo in versi, come ebbe a definirlo lo stesso Pushkin, e di argomento tutt'altro che eroico, men che meno epico.
Usando i classici schematismi da scuola media, lo si potrebbe quasi definire “un romanzo d'ambiente”, uno di quei tomi solitamente ponderosi di cui è ricca la letteratura ottocentesca e che, alla fine della fiera, sono caratterizzati dalla sostanziale preponderanza della cornice narrativa sulla storia in essi narrata. Lo so: una presentazione che potrebbe scoraggiare la maggior parte dei lettori. A ciò aggiungendo che, essendo lo Evgeny Onegin romanzo in versi, sia difficilmente aggredibile per un lettore che non sia in grado di leggere almeno una parte dei versi - Pushkin, se letto in traduzione, perde il 90% del suo immenso valore. Eppure, quel poco che rimane è più che sufficiente a giustificare una lettura per altro assai piacevole anche se ci limitiamo alla crosta più fragile ed esterna.

Riassumendo, il plot dell'Onegin è assai semplice. Evgeny Onegin, l'eroe eponimo, è un ragazzotto del primo ottocento pietroburghese, in molti aspetti assai simile al giovane Pushkin pre-decabrista. Permeato di cultura inglese, soprattutto nella sua declinazione byroniana, passa da una festa all'altra, da un amorazzo all'altro, dilapidando senza troppe preoccupazioni l'eredità paterna, che comunque scopriamo rovinata dallo stesso degno genitore (lo stesso Pushkin, nonostante l'indiscutibile successo letterario, arriverà ad ipotecare 200 dei 220 servi della gleba pochi giorni della prima della morte in duello):
“... fu a quel tempo
che morì suo padre, e un avido
reggimento di strozzini
d'adunò davanti a lui,
tutti a dir la sua.”

Vale la pena di sottolineare già qui una delle grandezze assolute di Pushkin, soprattutto per chi non l'abbia mai letto. La capacità, cioè, di descrivere con lievità ma anche con estrema precisione delle realtà del suo tempo. Mi spiego meglio: come vedremo, Pushkin sa parlare con forza anche al tempo futuro - anzi di "vedere" un futuro (e la figura di Tat'jana in questo è emblematica), ma sa anche rappresentare e cogliere con precisione assoluta il tempo che lo circonda. Usando l'ironia, dove serve - come nel passo di cui sopra. Che però rappresentava la quotidianità per una generazione (o meglio: degenerazione) di nobili rovinati dalla crisi economica. Attenzione: in questo, Pushkin è sorprendentemente più moderno del geniale Tolstoj. Mentre questi è costretto ad escogitare matrimoni fortunosi per risolvere i dissesti economici di una parte dei suoi quasi coevi protagonisti di Guerra e Pace (e lasciamo stare le sue proposte di riforma economica di Anna Karenina...), Pushkin parte da questi versi di tono quasi scherzoso e, nel prosieguo del romanzo, senza mai atteggiarsi a profeta o trombone, fa attive proposte di riforme sociali che, però, maschera così bene da renderle palesi solo ad una lettura molto profonda.

Tornando al romanzo, non a caso i primi versi del poema sono una breve e geniale istantanea sui pensieri di Onegin, dedicati ad anonimo zio, di cui il giovinastro aspetta impazientemente la morte che lo farà beneficiario di una nuova rendita:

Quel sant'uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
per aver rispetto quando
per davvero s'è ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
ma, perdio!, che noia stare
giorno e notte ad un capezzale,
senza muoversi d'un passo!
E che bella ipocrisia
coccolare un moribondo,
rassettarlo sui guanciali,
dargli farmaci e conforti,
sospirando dentro sé:
ma che il diavolo ti porti!


Alla morte dello zio (strofa LII), Onegin si ritrova beneficiato di una rendita che, però, lo obbliga a lasciare il mondo pietroburghese in cui tanto si trova a suo agio:

“e ecco Onegin insediato
nella piena proprietà
d'acque, boschi, terre e fabbriche.”


Ovviamente, un giovane annoiato come Onegin, che si reca sbadigliando al funerale dello zio (“Letto il triste annuncio, Evgeny / partì subito in corriera, / per vederlo, preparandosi, / sbadigliando già in anticipo / a sospiri, noia e recite / per amore del quattrino”) non può trarre grande interesse dalla vita di campagna, che alla seconda giornata l'ha infatti già stancato. Ora: la tentazione più forte potrebbe essere quella di vedere in Onegin una maschera di Pushkin – niente di più sbagliato. Pushkin in questo è come Dante: non si limita a narrare. Se Onegin si ispira ad una parte della vita di Pushkin, questi s'affretta a porre dei paletti – a dire “io”. Arrivando persino alla contrapposizione con il suo protagonista. Si tratta di un dato rivoluzionario per la letteratura russa, che mai aveva conosciuto un “io” poetico così forte – senza il quale, né Tolstoj né Dostoevskij sarebbero pensabili. Tanto è annoiato Onegin della vita di campagna, tanto Pushkin dichiara di amarla: “Io son nato per la quiete, / per la vita di campagna: / più è in disparte e più sonora / è la voce della lira, / e la fantasia più accesa.”

In realtà, quasi mai qualcosa è in Pushkin esattamente ciò che sembra. Più spesso, la realtà si cela sotto una maschera di apparente banalizzazione – grattata via la quale, l'estrema profondità poetica del Veliki Knjaz della poesia russa erompe con la forza di una tempesta: quando Pushkin scrive questi versi, egli è appena rientrato dall'esilio forzato in Crimea. Pur beneficiando di una grazia, è confinato in campagna, nelle proprietà paterne. Può essere vero – come ebbe a scrivere anche altrove, che la vita di campagna lo aiuti ad affilare le armi poetiche... ma niente più che una breve pausa per un uomo abituato alla bella vita pietroburghese.

Nel buen retiro campagnolo, Onegin fa conoscenza di un vicino – Lenskij. Che non potrebbe essere personaggio da lui più diverso:

“Vladimir Lenskij il nome,
gottinghiana la sua anima:
un kantiano nel fior fiore
dell'età: bello e poeta.
Questi i frutti degli studi
che con sé aveva portato
dalle nebbie di Germania:
fantasie di libertà,
mente fervida e un po' strana,
foga, sempre, nel discorso
e la zazzera sul dorso.”


In altre parole: tanto è byroniano il nostro Onegin, tanto è prototipo dell'esistenzialista il buon Lenskij. “Cuore tenero e inesperto”, le sue incertezze, i suoi dubbi, la sua perenne distrazione, sembrano (sono) costruite a specchio sul disincantato “menefreghismo” di Evgeny.
Così, quando il giovane Lenskij che ostinatamente “credeva nel destino, / in un'anima gemella / che languendo sconsolata / ogni giorno lo aspettava; / in amici sempre pronti / ad andare per lui in carcere / ed a smentire senza indugi / chi l'avesse calunniato” decide di presentare ad Evgeny la propria amata, questi si aggrega con fare disincantato. Ol'ga – questo il nome della predestinata, per cui aveva emesso “il primo gemito / la zampogna del poeta”. E qui Pushkin compie l'ennesima zampata: descrivendo come il povero Lenskij sia preso da passione per Olga, ricorre alle parole ed ai topoi di Karamzin, il leader indiscusso del sentimentalismo Russo. Prima di diventare il padre della storiografia russa, la sua Бедная Лиза ("La povera Liza" ... un nome, un programma) aveva fatto versare ettolitri di lacrime alle signore di buona famiglia – imponendo a queste ultime e ad una parte della poesia russa una lingua rarefatta e raffinata, irrimediabilmente confinata al solo “stile medio” di Lomonosov. Pushkin, che dallo studio di Barkov aveva ereditato la capacità e soprattutto la necessità di mescolare i tre generi in una creazione armonica, ovviamente usa queste citazioni per deridere il celebre rivale ed imporre la propria poetica.
Bene: conosciuta Ol'ga, Onegin ne rimane piuttosto deluso. Abituato alle insopportabili odi di Lenskij, mielose fino allo sviluppo del diabete, non rivede nulla in lei – soprattutto, in lei non vede nulla che giustifichi l'entusiasmo dell'amico: non che le manchino bellezza e tutto sommato una certa intelligenza ma...
“... ma predente/un qualsiasi romanzo,/c'è di certo il suo ritratto:/uno schianto – anch'io l'ho amato,/ ma perdio se m'ha stufato!”

E come Pushkin si stufa in fretta di Ol'ga, così Onegin. Che invece è in qualche modo colpito dalla sorella maggiore.

“ieie siestra svalas' Tat'jana ...” - “sua sorella si chiamava Tatiana”.

E la poesia russa non sarà mai più la stessa........

domenica 17 luglio 2011

Impostori, Assassini e Salvatori della Patria: la "Smuda" (1598 - 1613)

Quello che segue è un capitolo sanguinoso e ben noto della storia russa – ma che potrebbe ben figurare sulle pagine di un romanzo. Un giallo, o un thriller dalle tinte molto fosche. Con una spruzzata (anzi: ben più di una spruzzata) di intrighi internazionali. Con il sottofondo di ciò che potremmo definire “il sorriso che cela le lacrime”, giusto per citare Gogol' (e Pirandello).

Ivan IV, da noi meglio conosciuto come “il terribile” a causa della nota, maldestra traduzione occidentale del termine russo “groznyi” (in realtà, celebrativo dei suoi iniziali successi nelle guerre contro i khanati musulmani del Volga) segna l'apice rinascimentale della Moscovia. Con alti e bassi, questi ultimi prevalenti nell'ultima parte del suo regno, il grande Riurikide è riuscito a costruire uno stato centralizzato, militarmente molto consistente, con un sistema di tassazione finalmente efficiente ed in grado di sostenere economicamente uno stato moderno. In realtà, questa è solo una faccia della medaglia. Per prima cosa, la Moscovia continua a mancare di uno sbocco sul mare, sia esso il Baltico o il Mar Nero, il che compromette la competitività internazionale dei commerci, e “de facto” rende il mercato interno russo terreno di caccia dei commercianti dell'Hansa. Le continue guerre sostenute da Ivan IV per risolvere quest'annoso problema si traducono in altrettanti insuccessi, che prosciugano le risorse umane e finanziarie del Paese. Dulcis in fundo, Ivan non ha realmente risolto il secolare problema dell'interfaccia con lo sterminato territorio russo. Al termine di un lungo e sanguinoso tira-e-molla con boiari, e la chiesa ortodossa, Ivan ha semplicemente posto sotto il proprio diretto controllo una buona metà del Paese, che amministra per tramite di una nobiltà di servizio, i così detti “dvorianin” (dvor è il cortile, l'aia di una fattoria: chiaro il riferimento ad un certo tipo di attività agraria). Si tratta dell'oprichnina (Опри́чнина), termine cui ancora oggi i Russofoni guardano con doloroso sospetto. L'oprichnina rappresenta infatti un vero e proprio sistema di potere sostenuto da una polizia segreta direttamente controllata dallo Zar, da violenze e barbare efferatezze: uno stato nello stato, in cui violenze e spoliazioni compiute dagli uomini dello stesso Zar (forse memore dell'antico kormlienie di kieviana memoria) sono all'ordine del giorno. Uno stato-matrioska che per di più cresce a spese del sangue dei boiari e del popolo: anticipando i dittatori del XX secolo, Ivan IV istituisce un vero e proprio sistema del terrore in tutto lo stato, le cui violenze sono sistematicamente rimandate ai boiari che, di volta in volta, Ivan intende spogliare di terre e servi della gleba. All'occorrenza, gli oprichnik fabbricano le prove di cui lo Zar ha bisogno per sostenere le sue accuse.
Per farla breve: fra il 1564, anno in cui le fasulle dimissioni da Zar di Ivan IV danno il via alla creazione dell'oprichnina ed il 1572, la Russia viene progressivamente stritolata. Ivan IV, pur rimanendo al trono per 12 anni, si rivela sempre più incapace di sfuggire al sistema di terrore da lui stesso creato, e così di proporre soluzioni alternative: l'obiettivo di costruire uno stato moderno viene divorato dagli stessi strumenti che avrebbero dovuto portare alla sua nascita.
Molto si è favoleggiato sulla follia di Ivan IV. Ricontrollando a ritroso l'albero genealogico dei Rurikidi, soggetti di comportamento quantomeno bizzarro, ovvero violento ai limiti dell'eccesso, non sono affatto rari. Ivan è forse il caso più noto. L'episodio più eclatante è legato alla morte del suo erede designato, Ivan Ivanovic (1554 – 1582) da lui stesso ucciso con il suo scettro all'apice di un incontrollato scatto d'ira. Anticipiamo qui che la madre di Ivan Ivanovic fosse figlio di Anastasia Romanovna, e che proprio la parentela con la Zarina sarà una delle carte vincenti di Mikhail e Filaret Romanov nell'imporre la nuova dinastia alla conclusione dello Zemsky sobor, nel 1613.
La morte di Ivan apre una profonda crisi dinastica: oltre allo citato e sfortunato zarevic, Ivan IV ha due figli che paiono del tutto inadeguati a succedergli. Fëdor (1557 - 1598) è indolente, di intelletto lentissimo, sospetto portatore di qualche precoce forma di demenza. Per di più, sussurrano alcuni storici piuttosto maligni, di probabile orientamento omosessuale e quindi privo di una propria progenie. Il figlio più giovane di Ivan, Dmitri Ivanovic, è niente più che un neonato (nato nel 1581) e per di più è figlio del settimo (o forse ottavo...) matrimonio dello Zar. Diversamente dalla Chiesa Cattolica, per la quale tutti i matrimoni hanno la stessa dignità, la Chiesa Ortodossa riconosceva tuttora l'interpretazione di Nicola il Mistico (da mystikos, ovverosia “segretario imperiale”), patriarca di Costantinopoli ai tempi di Leone il Saggio (IX secolo), per la quale solo i primi tre matrimoni producono prole legittima. In altre parole, Dmitri era del tutto inadeguato a rimpiazzare il mediocre Fëdor nel caso di un precoce decesso del padre Ivan. Evento che, per altro, si materializza con diabolica intempesticità nel 1584, quando Ivan è colpito da un attacco cardiaco durante una partita di scacchi.

Certamente, il principio dinastico in Russia ha fatto passi da gigante dai tempi di Vlamidir Monomakh, e lo stesso Ivan IV (diventato veliki knjaz di Mosca all'età di 14 anni!) ne è la prova diretta. Tuttavia, la citata e critica situazione del governo moscovita rende necessario un sovrano di polso ben diverso da ciò che la dinastia Rurikide è al momento in grado di offrire.
La particolare situazione creatasi apre un vuoto di potere nel quale si insinua una figura discussa, a dir poco ambigua: Boris Godunov (Борис Фёдорович Годунов, quindi da leggersi Barìs Gadunòv). Boris Godunov è l'antesignano di una nuova era per lo stato russo. Per prima cosa, non è un russo etnico. E' bensì discendente di Chet - un Khan Tataro che, nel XIV secolo, aveva correttamente intuito il mutamento nell'equilibrio di forze fra Tataria e Russia, scegliendo quest'ultima per se e la propria famiglia. Secondariamente, proviene da Kastroma, alle estreme propaggini orientali della Russia Europea. Un'area che, all'epoca, stava vivendo una vorticosa crescita economica e demografica, sostenuta dalle floride rotte commerciali asiatiche che avevano progressivamente sostituito quelle di direttrice nord-sud che avevano fatto la fortuna di Kiev. La famiglia di Godunov, oggi estinta, era riuscita a raggiungere un rango piuttosto elevato nella nobiltà russa: all'inizio del regno di Ivan IV, i Godunov già facevano parte dell'élite boiara. Da simili premesse, l'ascesa di Boris sarà apparentemente inarrestabile.
Nel 1570 lo ritroviamo poco meno che trentenne come arciere e fra le guardie scelte di Ivan IV e quindi, nel 1571, fra gli oprichnik, ai vertici della polizia segreta. L'anno seguente, si sposa con Maria Grigorievna Skuratova-Belskaya, figlia del capo degli oprichnik Malyuta Skuratov-Belskiy. Grigory Lukyanocivh, meglio noto come Malyuta, è tuttora ricordato come il più sanguinario e fedele degli oprichnik: a lui, Ivan aveva affidato l'eliminazione del cugino e cancelliere, Vladimiro di Staritsa (1569), del metropolita di Mosca Filippo II, l'unico reale oppositore rimasto del regime di Ivan (sempre 1569), nonché l'eliminazione di 1000 cittadini di Novgorod ritenuti in qualche modo responsabili degli insuccessi militari nel nord (1570) e di un numero imprecisato (sicuramente qualche migliaio) di ufficiali ritenuti a loro volta colpevoli del disastro militare in Crimea (1571). Alla morte di Skuratov, nel 1572, la posizione di Godunov andò rafforzandosi: non è molto chiaro cosa accadde, né quali mosse segnarono le fasi successive della sua ascesa politica – ma nel 1580 Boris arriva a proporre allo Zar nientemeno che la propria sorella Irina come moglie del secondogenito ed imbelle Fëdor. A tale proposito: a dispetto di quanto potremmo pensare, non solo Godunov non ebbe alcun ruolo attivo nell'assassinio dello Zarevic Ivan nel 1582, ma i testimoni oculari dell'evento ci raccontano che lo stesso Boris avrebbe riportato gravissime ferite nel tentativo di salvare l'erede al trono dalla furia omicida paterna.

Alla morte di Ivan IV, è dunque Boris il vero e proprio “uomo forte” della situazione: non casualmente Ivan, in punto di morte, nomina lui, Fëdor Nikitich Romanov (o Nikita Romanovic) e Vasili Shuiski come alto consiglio di reggenza e di supporto a Fëdor – della cui idoneità al regno lui stesso dubita profondamente. Dal 1584 al 1586, la figura di Godunov è sovrastata – almeno formalmente, da quella del più anziano Nikita Romanovic, alla cui morte Boris diventa l'indiscussa guida del Paese. La posizione di Boris è tanto forte da resistere ai complotti di palazzo tramati dai Boiari nel corso del quinquennio seguente, ed in particolare dal putsch del 1587 tramato dal metropolita di Mosca Dionisio II: i congiurati sono uccisi od esiliati, lasciando Boris de facto padrone assoluto del Paese. E, come tale, Boris si rivela amministratore competente e sorprendentemente preparato. A livello militare, nel decennio 1587 – 1597 Boris riesce a rimediare ai disastri delle ultime guerre di Ivan, a nord riconquistando buona parte dei territori persi alla Svezia e sconfiggendo i Tatari ed i Turchi di Crimea, sia sul suolo russo che sulle rive del mar Nero. A livello economico, Boris mette in atto quella che sarà la rivoluzione copernicana dell'economia russa, destinata ad influenzarne la politica estera fino alle guerre napoleoniche. Il primo atto è rappresentato dall'autorizzazione ai mercanti inglesi di installarsi sul suolo russo. I britannici sono destinati a soppiantare l'Hansa nel controllo dei commerci, e lo faranno aggiungendo una nuova dimensione, quella atlantica, ai beni pregiati russi. Il secondo atto, di ben altro orientamento, è rappresentato dall'istituzione formale della servitù della gleba. A tal proposito, vale la pena spiegare le ragioni di un atto di questo genere: il regime di terrore di Ivan aveva spinto masse enormi di contadini a lasciare le proprie terre, cercando una nuova vita lontano dal controllo dello Zar e dei Boiari nelle terre strappate ai Tartari con le guerre contro Kazan' e Astrakhan. Si tratta della cosiddetta “Novaya Russija”, che sarà di critica importanza politica nei secoli a venire. I contadini non si limitano ad espandere i confini geografici della Russia popolata da russi etnici: una parte di essi, trovandosi ai confini dello stato, esposti alle rappresaglie turche e tatare, si da, più o meno spontaneamente, un'originale organizzazione anarchico-guerrigliera. Stiamo parlando dei Cosacchi, il cui nome basta ad evocare eventi di capitale importanza storica, come l'ascesa al trono di Caterina II, o persino la Rivoluzione Russa del 1917.
L'istituzione della servitù della gleba è quindi un disperato tentativo di frenare l'emorragia di uomini – un tentativo i cui esiti finali saranno controproducenti, compromettendo in modo strutturale la competitività internazionale dell'agricoltura russa.
L'ultima innovazione di Boris, nel 1597, è rappresentata dall'innalzamento al rango di Patriarca del metropolita di Mosca. Vale la pena ricordare che dei quattro patriarcati originari indicati dal concilio di Nicea (Roma, Alessandria, Gerusalemme ed Antiochia), e così il successivamente istituito Patriarcato di Costantinopoli, solo quello di Roma (ovverosia il Papato) non si trovasse sotto il più o meno diretto controllo turco (e quindi musulmano): innalzare Mosca al rango di patriarcato era un'azione rivoluzionaria dal punto di vista concettuale, ed un chiaro messaggio politico alla Sublime Porta Ottomana – un tentativo tutt'altro che celato di portare la Russia allo stesso piano del Sultanato.

Il 7. Gennaio dell'anno 1598, il programma politico di Godunov acquista un significato molto più profondo. Alla morte senza eredi di Fëdor, la dinastia Riurikide si trova di fronte alla più grave crisi della sua storia. La discendenza legittima di Vladimiro il Santo, quantomeno nella branca di Vladimir Monomackh, Yuri Dolgoruki, Alexandar Nevsky e Dmitri Donskoy (i cosiddetti Danilovici), si è infatti estinta. Dmitri, l'ultimo figlio di Ivan IV, è per di più morto nel 1591 in circostanze quantomeno dubbie, ucciso da un pugnale con il quale stava giocando. A complicare le cose, i Riurikidi non Danilovici più vicini alla famiglia reale sono stati sterminati da Ivan e dai suoi oprichniky. Ed è qui che Boris Godunov può meglio giocare le sue carte, e passare all'incasso del credito acquisito nel decennio di reggenza. Dvorianin e Boiari sono stati beneficiati dalla conquista di nuove terre e dell'istituzionalizzazione della servitù della gleba. I mercanti russi, grazie alla nuova direttrice commerciale garantita dai britannici, possono esportare le proprie merci su un territorio più vasto, con conseguente crescita degli introiti. La Chiesa Ortodossa Russa gode di un prestigio enormemente superiore rispetto ai tempi dei Danilovici, per i quali il metropolita ricadeva sotto la diretta protezione (= autorità) del Vieliki Knjaz.
Le forze in gioco non hanno grosse difficoltà nel riconoscere Godunov come garante ideale dei propri interessi: su suggerimento del patriarca Giobbe il 21. Febbraio 1598, dopo soli quattro giorni di dibattimento, Boris viene proclamato Zar dallo Zemsky Sobor, una specie di parlamento istituito da Ivan IV.
Nei 7 anni di regno, Boris agì come un sovrano di polso, ma capace di proseguire sulla strada del rinnovamento statale intravista da Ivan IV con maggiore coerenza e molto più buon senso. Il che, ovviamente, non poteva lasciare indifferente la principale potenza militare dell'Europa orientale: la Polonia-Lituania. Che, alla morte di Boris, nell'Aprile 1605, coglie l'attimo ed interviene direttamente nelle vicende russe. Tingendo la storia di giallo.

Il sedicenne figlio di Boris, Fëdor II, regna da pochi mesi quando – alle frontiere dello stato moscovita, compare un misterioso straniero. Che si dichiara nientemeno che Dmitri Ivanovic, il figlio di Ivan IV. Ovviamente, abbiamo a che fare con un impostore, un ruteno di nome Grigory Otrepyev, inviato dai Polacchi per destabilizzare la successione di Boris. Il cui figlio Fëdor, oltre che giovanissimo, era poco amato dal popolo in quanto discendente per parte materna del brutale Skuratov, il cui ricordo era tutt'altro che assopito. Se il piano dei Polacchi può sembrare abbastanza creativo, ancor più sorprendente è il suo esito: nel giro di pochi mesi, i Cosacchi e i Boiari della fazione repressa da Boris si coalizzano contro il sovrano legittimo e lo uccidono. Il Falso Demetrio diventa zar, conservando il trono per oltre un anno. Nel corso del suo regno, l'impostore pone le basi di una stretta alleanza militare con i Polacchi e, nello stesso tempo, inizia a destabilizzare le riforme di Boris, penalizzando i diritti di Boiari e Dvorianin, ed umiliando a più riprese la chiesa ortodossa russa (come in occasione del suo matrimonio, con una principessa cattolica). E' presumibile che l'obiettivo finale di Demetrio fosse l'assorbimento della Russia nello stato Polacco Lituano, il che avrebbe radicalmente cambiato la Storia di questo grande Paese.

Tuttavia, Demetrio e i Polacchi non avevano fatto i conti con il fortissimo orgoglio nazionale russo, forgiatosi negli anni del gioco mongolico – e con il nuovo equilibrio di poteri determinato da Boris. I Boiari hanno ben chiaro che, con i Polacchi, i loro secolari domini saranno definitivamente spartiti dai nuovi invasori. Al loro arrivo è presumibile che la servitù della gleba sia smantellata, togliendo ogni forza economica agli dvorianin. Per concludere, l'inserimento della Russia in un sistema commerciale polacco-lituano marginalizzerebbe del tutto i mercanti russi, proprio nel momento in cui essi hanno trovato nuovi e più floridi mercati.
Risultato: le forze più vive dello stato russo si coalizzano dietro la figura del principe Schuisky, l'ultimo riurikide rimasto, che detronizza Dmitri e diventa Zar con il nome di Vasili IV.

Fine dalla vicenda? Tutt'altro: se i Russi chiamano il periodo compreso fra la morte di Boris e l'incoronazione di Mikhail Romanov come “epoca dei torbidi”, un motivo ci sarà. Difatti, appena Vasili diventa signore di tutte le Russie, i Polacchi mettono in gioco un nuovo usurpatore: un nuovo falso Demetrio. Lo stato sprofonda in un vorticoso susseguirsi di guerre intestine ed assassini di palazzo (accompagnati dalla comparsa nel 1612 di un terzo e fortunatamente ultimo Falso Demetrio...), mentre gli Svedesi ed i Polacchi colgono l'occasione per invadere in forza il territorio russo. Un disastro continuo da cui la Russia sarà strappata solo alla fine del 1612 quando Dmitry Pozharsky (un boiaro) e Kuzma Minin (un mercante) organizzano un'armata di volontari che si pone alla diretta dipendenza del già citato Zemsky Sobor e riesce a scacciare gli invasori. Tutt'oggi, i due personaggi sono immortalati da un bellissimo monumento sulla piazza Rossa, in prossimità di San Basilio, a ricordo dei due uomini che salvarono la Russia e le permisero di arrivare fino a giorni nostri.

martedì 12 luglio 2011

Buon compleanno, San Basilio!

Oggi, 12. Luglio, ricorre il 450° anniversario della Cattedrale di San Basilio, o più correttamente della Cattedrale dell'Intercessione della Teotokos sul fossato (Собор Покрова Пресвятой Богородицы на Рву). Con la sua struttura particolare, le sue cupole coloratissime a forma di turbante, essa rappresenta molto più che il simbolo di Mosca – in un certo senso, essa è simbolo della stessa Russia.
Vale quindi la pena fare un passo indietro, e capire perché si sia arrivati – il 12. Luglio del 1561, ad inaugurare questa meraviglia del mondo moderno.
Tanto per cominciare, la sua posizione: essa si trova a Mosca, subito fuori dal suo Cremlino. Abituato a considerare per sineddoche il Cremlino come sinonimo di Mosca, spesso il lettore occidentale dimentica che la maggior parte delle città russe di origine medievale abbia un suo Cremlino. La parola russa кремль significa semplicemente “fortezza”, e quindi indica la parte fortificata delle città russe – quella parte che in un certo modo eredita la funzione del primitivo “gorod” e che, fra l'invasione Tataro-mongola e la smuda, viene abitata dal principe locale o, nelle città dipendenti da una più forte autorità centrale, dal locale namestnik (o viceré), dai suoi armati e dall'amministrazione cittadina. Va da sé che, in determinate circostanze (come le ripetute incursioni tatare) il Cremlino possa svolgere funzioni simili ai castelli medievali, accogliendo buona parte della popolazione cittadina.
Tornando alla Cattedrale dell'Intercessione, trovarsi nella Piazza Rossa, all'esterno del Cremlino, ha un significato preciso. Essa fu costruita nell'ambito della più complessa riorganizzazione di Mosca organizzata dai successori di Dmitri Donskoy. Come abbiamo visto in un post precedente, nel 1380 quest'erede di Alexander Nevsky riuscì a sconfiggere l'Orda nella battaglia di Kulikovo, acquisendo un prestigio senza pari su tutto l'ambito degli Slavi dell'Est. Aggiungendo che, negli stessi anni, l'Impero dei Paleologhi stava venendo divorato dai potentati turchi, il trionfo sugli ugualmente islamici tatari acquisiva un significato ancor più profondo: diventerà una della basi della dottrina di “Mosca, terza Roma” che si diffonderà in area ortodossa a partire dal fatale 1453. Già prima di Kulikovo, Donskoy aveva intuito che buona parte della capacità di ricatto dei Tatari sui Russi fosse legata alla scarsa capacità difensiva delle città russe: costruite quasi tutte in pianura, o su modeste alture, esse mancavano delle fortificazioni naturali delle fortezze caucasiche od europee (per non parlare della leggenderia Costantinopoli, sulle cui capacità difensive naturali persino l'Impero Britannico si spezzerà i denti nel corso del primo conflitto mondiale). Ad aggravare la situazione, quasi i gorod avevano mura costruite in legname – rendendoli di fatto fin troppo vulnerabili agli aggressori. Fra 1366 e 1368, Dmitri non ancora Donskoy, fece costruire un nuovo Cremlino, con mura in pietra e mattoni – sostanzialmente imprendibile per i Tatari, come dimostrato dalla rappresaglia messa in atto dal Khan Tataro Tokhtamish all'indomani di Kulikovo, nel 1382: pur bruciando Mosca, il Cremlino rimase imprendibile, rafforzando ancor di più l'aura già leggendaria di Dmitri.
Negli anni seguenti, i successori di Dmitri, ed in particolare Ivan III, ingrandirono ed abbellirono il Cremlino, decorandolo con chiese come la Chiesa dell'Assunzione. Mancando maestranze locali, la gran parte dei lavori ingegneristici fu svolta ma architetti europei, come i “nostri” Pietro Antonio Solari, Marco Ruffo, Antonio Gislardi, Marco Bon, Aloisio da Milano. Soprattutto la Chiesa dell'Assunzione ha un chiaro significato politico che prepara San Basilio, e la cui percezione ugualmente ci manca. Tale cattedrale è infatti la copia (più o meno precisa) dell'omonima Chiesa eretta a Kiev da Vladimir I il Santo, l'evangelizzatore della Russia. Che, a sua volta, riprendeva le tradizioni bizantine (soprattutto Santa Sofia) interpretandole in ottica kieviana. Chiesa che era stata già precedentemente riprodotta a Novgorod e Vladimir. Con questo primo “step”, Mosca si pone quindi come erede della tradizione Kieviana: siamo circa cent'anni prima del fatidico proclama del 16. Gennaio di Ivan IV, ma il solco è già segnato.
San Basilio, così originale – così “unica” nella sua particolare pianta, e nello sviluppo organico, segue questa linea. E non è un caso, essendo il suo committente nientemeno che lo stesso Ivan IV. E' eretta su una pianta ottagonale, il che vuole riprendere il numero mistico per eccellenza della tradizione bizantina ed alto-medievale. E' altissima – per gli standard medievali russi: a titolo di confronto, la chiesa di Kolomenskoe (1530), oltre ad essere molto più bassa di San Basilio, riesce ad acquisire uno sviluppo verticale solo sacrificando quasi tutto lo spazio interno a poderose mura di sostegno.
Detto ciò, come segnale di autorità e potenza, San Basilio sarebbe già un segnale più che sufficiente – ma Ivan fece di più. Le torri di San Basilio non hanno una decorazione a forma di turbante per caso, o per vezzo degli architetti: esse vogliono celebrare la vittoriosa campagna di Ivan IV che, nel 1552 conquistava Kazan' e quattro anni dopo Astrakhan, chiudendo definitivamente l'era iniziava dalla disastrosa battaglia del fiume Kalka del 1238. Per questo essa è fuori dal Cremlino. Essa vuole dimostrare che gli Slavi dell'Est non temono più alcun nemico: non ci sarà più bisogno delle sua mura per proteggere i “provoslavoi” (gli ortodossi) dai musulmani.

San Basilio è quindi uno strumento politico, prima ancora che un'opera d'arte. E vale la pena di non dimenticarlo, soprattutto oggi. E' l'inaugurazione di Mosca come capitale di un impero - Impero che ha inizialmente costruito la sua identità nell'opposizione all'Oriente islamico ed all'occidente Cattolico, nel rifiuto di entrambe le identità (Europea e Asiatica) e nella ricerca difficoltosa di una terza via. E' il superamento della Prima Roma, ma anche della Seconda Roma - Costantinopoli, della cui meraviglia per antonomasia (Santa Sofia) essa non riprende volutamente né pianta né struttura. E' quindi l'incarnazione materiale del discorso di incoronazione di Ivan IV: come scrivevo in un altro post, proclamarsi Zar non significa per il Riurikide dichiararsi sulla scia di Cesare, Augusto e Costantino (come nel caso di Carlo Magno, ad esempio... altro celebre ed autoproclamato Cesare), ma aprirne una nuova, che Ivan aveva intravisto e non riuscirà a portare a termine. Forse non è un caso che Pietro il Grande, altro monarca che tentò una modernizzazione del Paese, non provasse grande simpatia per San Basilio, e che preferisse erigere la sua capitale sul Baltico, ben lontana dall'ingombrante ombra della meraviglia di Ivan... non era quella la Russia sognata dal gigante Romanov. La Sua Russia non avrebbe cercato questa terza identità, ma avrebbe sacrificato tutto per agganciarsi al treno Europeo, con conseguenze di cui non potremo non parlare in altra occasione....

lunedì 11 luglio 2011

Da Kiev a Mosca: non soltanto una translatio imperii

Kiev è la culla della Russia storica: le byline, poemi e poemetti incentrati sugli eroi del mitico passato russo, quasi invariabilmente gravitano attorno all'attuale capitale dell'Ucraina. Anche dopo la sua distruzione più o meno totale ad opera dei Tatari nel 1240, Kiev rimase il cuore pulsante dell'identità culturale russa – fino ad una data molto precisa. Ovverosia, l'8. Settembre del 1380 quando Dmitri Ivanovich della casata dei Riurikidi, principe di Mosca, sconfigge gli stessi Tatari nella leggendaria battaglia di Kulikovo (Куликовская битва).

Nei 140 anni intercorsi fra i due eventi, il baricentro politico e culturale dell'antica Russia si era spostato ben più dei 750 km che separano le due città. In un certo senso, l'ascesa di Mosca segna la nascita di una nuova Russia, che è poi quella moderna, a noi meglio nota.

La Russia di Kiev (o per meglio dire: la Rus' di Kiev) era un agglomerato piuttosto lasso di principati retti da un'élite politica di origine scandinava, privo di qualsiasi elemento coesivo che ci porterebbe a parlare di “stato” in senso moderno. I principe (knjaz) e i suoi sottoposti (la druzhina) si limitavano ad un più o meno elementare sfruttamento del territorio, che sostanzialmente continuava a vivere un'esistenza propria, più o meno indipendente da ciò che nella sede del principato andava verificandosi. Non esisteva nemmeno una tassazione coerente, finalizzata alla gestione dello stato e dei suoi bisogni: essa era sostituita dal diritto di razzia (kormlienilie, кoрмлениле) che lo knjaz attribuiva di volta in volta a questo od a quel membro della druzhina, e dal tributo annuo che le città direttamente od indirettamente sottoposte a Kiev, organizzate che fossero in principati o dipendenze (uyezd), erano tenute a pagare alla capitale. I vari principati erano fra di loro collegati una rete labilissima sostenuta dai legami di sangue e di famiglia, veri o presunti che fossero, con un grado di autonomia dipendente da fattori difficilmente standardizzabili: intraprendenza dello knjaz locale, ricchezza dell'entroterra e/o dei commerci passanti per il posad (= sobborgo mercantile) passavano...

Con l'invasione tataro-mongola, tutto è destinato a cambiare. Tanto per cominciare, la linea commerciale “dai Variaghi ai Greci”, che vedeva in Kiev una tappa intermedia più o meno forzata sulla rotta per Costantinopoli, si esaurisce a partire dal 1204. Con la caduta dei Comneni, Costantinopoli smette infatti di essere il principale hub commerciale del Mediterraneo cristiano – primato che si trasferisce in Occidente, spartito fra Venezia, Genova ed i porti Aragonesi.
Secondariamente, l'invasione Tatara colpisce duramente l'area corrispondente all'odierna ucraina, ma risparmia le zone nord-orientali dove la stella del principato di Vladimir-Suzdal' inizia a brillare sempre più forte. Il principato di Vladimir rappresenta una realtà anomala nel contesto dell'antica Rus': il vero e proprio fondatore del principato, Yuri Dolgoruki (= braccio lungo, 1099 - 1157), figlio cadetto di Vladimir Monomakh (1053 - 1125), si distacca inizialmente dalle vicende dinastiche di Kiev (en passant, ricordiamo che proprio il tardivo coinvolgimento sarà causa della sua morte), instaurando un dominio locale fortemente centralizzato, con una linea dinastica più chiara e lineare. L'approccio di Vladimir diventerà ancor più specifico nella figura del figlio e successore di Yuri, Andrei Bogolyubsky (1111 - 1174): oltre a sperimentare una linea patrilineare diretta che già rappresenta una novità per il mondo russo, Andrei si disinteressa quasi completamente delle vicende kieviane, preferendo rafforzare il suo dominio su Vladimir.
Vladimir è inizialmente lontana dalle più floride rotte commerciali: quello che nasce è quindi un principato basato sul capillare sfruttamento dei contadini, in cui i mercanti – vitali nell'ecosistema kieviano, giocano un ruolo secondario. Mancando i proventi determinati dallo sfruttamento dei commerci e dei relativi balzelli di passaggio, Yuri Dolgoruki (che non era chiamato “mano lunga” solo per il suo tardivo ma forte coinvolgimento nelle remote vicende di Kiev... ma anche per l'abitudine di mettere la mano nel borsello dei sudditi) e Andrei istituiscono un sistema di tassazione sempre più opprimente. Così, quando i Tatari arrivano e distruggono lo stato kieviano, non solo si limitano a lambire la propaggine più “innovativa” di quest'ultimo, ma paradossalmente lo rafforzano, incrementandone il peso specifico fra i principati superstiti. Ruolo che lo stesso Khan riconosce nominando il principe di Vladimir vielikij knjaz (= gran principe), titolo che prima spettava al signore di Kiev ed a lui soltanto. Nomina tutt'altro che disinteressata: compito del vielikij knjaz è soprattutto raccogliere i balzelli che poi andranno a rifornire le tasche dei tatari. In un contesto come quello russo del XIII secolo, l'esperienza di Vladimir nella raccolta e nella gestione della tassazione rappresentava una garanzia.
Mosca, fondata dallo stesso Yuri nel 1147, entra in gioco in questo momento. Essa fa parte del cosiddetto “anello d'oro”, Золото́е кольцо́, una serie di insediamenti che Yuri aveva disposto attorno alla sua capitale per proteggerla da eventuali invasioni. Costruita sulle rive del fiume Moscova, Mosca ha una posizione invidiabile: grazie ad un mix di reti fluviali e vie carovaniere, essa si trova ad essere la più orientale propaggine del sistema fluviale diretto al mar Nero, e la più occidentale di quello che, costruito sul Volga, porta verso il mar Caspio ed i khanati dell'Asia Centrale. Nel contesto rappresentato dalla pax mongolica e tataro mongola, si trova nella situazione ideale per sfruttare una nuova via commerciale. Potendo beneficiare, al tempo stesso, dello sfruttamento del latifondo alla base del sistema di potere di Yuri.
Nel 1303, Daniele, figlio cadetto del leggendario Alexander Nevsky, diventa principe di Mosca e distacca completamente il principato dal sistema di potere di Vladimir: negli anni seguenti, il suo discendente Ivan si impossessa di Vladimir. Nel 1327, il penultimo passo: complice la crescente influenza cattolica in area ucraina, determinata dall'inarrestabile espansione polacco-lituana, il metropolita di Kiev si trasferisce a Mosca dopo una sosta (30 anni circa) a Vladimir.
All'alba del 1380, Dmitri ha quindi forza economica, morale e politica per sfidare apertamente i Tatari. La vittoriosa battaglia di Kulikovo darà ai principi di Mosca, eredi di sangue del leggendario Alexander Nevsky (altro fattore senz'altro a loro favore), il risalto necessario per essere riconosciuti da tutti i Russi come l'unica speranza di riconquistare quell'identità culturale e politica cui Ivan IV si appellerà nel celebre discorso di incoronazione del 16. Gennaio 1547, proclamandosi “Zar di tutte le Russie”. Quindi non solo Vielikij Knjaz (titolo in qualche modo infangato dalla dipendenza dai Tatari), né soltanto Zar (= imperatore) dei Russi di Moscovia - come il padre Ivan III. Ma di tutti i Russi, anche di quelli sottoposti al maltollerato giogo polacco. In un certo senso, Ivan chiude quindi un ciclo di rinascita iniziato con la distruzione di Kiev – ma la sua Russia nulla ha a che fare con quella delle antiche byline. Stato centralizzato, rapace (e sotto di lui, semplicemente rapacissimo), fortemente militarizzato, dai forti connotati agricoli, retto da un governo autocratico quello concepito e sviluppato da Ivan, soprattutto nelle allucinate missive con Kurbsky. Ovverosia, l'immagine speculare del labile, impalpabile, “stato minimo” (se mai di stato potremo parlare...) che i Russi avevano ormai mitizzato nei racconti di Sviatogor e di Michail Potok.