mercoledì 17 agosto 2011

Amazzoni: donne da ammirare o da detestare? La seconda che hai detto ...

Agli antichi greci dobbiamo moltissimo, in termini culturali. Tuttavia, l’affetto e l’ammirazione nei loro confronti non permetteranno mai di celare l’assoluta misoginia della loro cultura. Se la segregazione sessuale praticata in molte culture contemporanee fa giustamente tuonare l’opinione pubblica occidentale, tacciando tali atteggiamenti di barbarie, è lecito e necessario ricordare che i civilissimi contemporanei di Platone ed Aristotele avessero usi e costumi probabilmente peggiori dei più rozzi ed oscurantisti pecorai Afghani e Pakistani del giorno d’oggi.

Per sottolineare una volta di più che porre la donna in una posizione sottomessa, in un certo senso esclusa dalla società – che era per definizione esclusivamente maschile, fosse la normalità del mondo ellenico basterà ricordare i toni stupiti utilizzati da Aristotele (Fragm. 607 Rose) per ricordare che le assai più libere donne etrusche banchettassero con i mariti “sdraiati sotto la stessa coperta”. Toni che si mutano nello stizzito quando la penna passa ad una delle peggiori penne dell’antichità, Teopompo di Chio, secondo il quale “presso gli etruschi le donne sono messe in comune. Si presentano sovente nude... poiché non è considerato vergognoso mostrare il proprio corpo. Stanno a banchetto, e non vicino al marito ma accanto al primo venuto e brindano alla salute di chi vogliono. Sono forti bevitrici e molto belle d’aspetto”.

Il che ci permette di riportare l’attenzione alla doppia morale greca, secondo la quale nulla era più splendido di un corpo nudo, purché maschile, ciò che diventava appunto fonte di immenso scandalo quando fosse invece femminile. A tale proposito, basta ricordare la furente reazione di Artemide, vista ignuda dall’improvvido Atteone, immediatamente mutato in cervo e come questo sbranato dai propri cani.

La pessima considerazione della donna nel mondo antico non era, intendiamoci, un’esclusiva ellenica. Dove, per altro, si riscontravano alcune eccezioni: gli ammiratissimi spartani, che al tempo stesso apparivano un po’ eccentrici per certe loro consuetudini, erano vituperati dai civilissimi ateniesi in quanto non solo alle donne morte per parto si tributavano onori analoghi agli eroi deceduti sul campo di battaglia, ma alle donne stesse si permetteva di ereditare beni propri, senza dover ricorrere ad un qualche improvvisato tutore – padre, figlio o fratello che fosse. Vale la pena ricordare che mille e cinquecento anni dopo l’emanazione delle leggi di Licurgo, l’editto di Rotari stabilisse che una donna dovesse sempre giacere sotto l’autorità di un maschio: morto il marito, si passava al padre od al figlio. In loro mancanza, ad un fratello. In loro ulteriore assenza, si sondava tutto il parentume alla ricerca del più prossimo maschio adulto disponibile.

La donna era quindi considerata qualcosa di appena più rilevante di un oggetto, e ahinoi questa disposizione la ritroviamo in quasi tutto l’universo indoeuropeo. Lasciamo stare il fatto che, già a livello PIE (Proto Indo-Europeo), esistessero forme matrimoniali (sansc. svayamvara) in cui era facoltà della donna scegliere il proprio consorte, più o meno liberamente. Un rito la cui antichità è testimoniata dalla cristallizzazione del suo momento culminante, con la deposizione di una corona sul capo del prescelto da parte della donna: ciò che fa Elena scegliendo Menelao (Iliade), ovvero Katayun prendendo Goshtasp (Shah-nameh) come proprio sposo, o Damayanti con Nala (Mahabharata). A tale proposito, ricordiamo che tutt’ora i Cristiani di rito tradizionale (siano essi cattolici di rito greco o ortodossi) celebrano il matrimonio con la deposizione delle corone nuziali, sugello alla libera scelta dei due sposi.

Passiamo alla lingua: esiste buona concordanza dei linguisti che i tre casi del PIE si siano evoluti da una primitiva distinzione fra animato ed inanimato, una dicotomia che si riscontra anche nella morfologia delle lingue PIE, specie di quelle più antiche. La lingua PIE aveva due aspetti verbali: perfettivo, proprio dell’azione compiuta ovvero inanimata, ed imperfettivo, che è quello dell’azione che si svolge. Il lessico indoeuropeo aveva quindi (almeno) due radici per tutti i termini di maggiore rilevanza sociale: il fuoco ad esempio. Dalla radice *hngwis abbiamo termini che si riferiscono al fuoco in termini “vitali”. Agni, ad esempio, è il Dio del fuoco nella cultura vedica. E’ ignis, il fuoco sacro che ondeggia e danza, forte di una propria individuale esistenza, davanti agli occhi della vestale. *Péh2ur è il fuoco inteso come qualcosa di statico, inanimato appunto. Da cui il greco πῦϱ, il moderno inglese fire. Per restare nell’ambito del confronto fra opposti – tematica cara al mondo PIE, l’acqua era sia *h2ep, che che *uodr. Da *h2ep deriva la più tarda e semplificata radice ap- che si ritrova per esempio nel termine latino “acqua” (da *h2ep > *aqw- secondo la stessa resa che da un originale “eqw-” porta a ίππος in greco e a equus in latino), nel nome del Dio latino delle acque (Neptunus), nel nome delle acque (in generale) in sanscrito (Apah) ed in persiano (Ab), ed in quello di una delle più amate divinità del mondo vedico - ovvero Apam Napat (letteralmente “il nipote delle acque”; non a caso il padre di Feridun, che usurpa buona parte dei ruoli di Apam Napat si chiama Aβtin), nonché in quello di alcuni fiumi (il celebre Avon, ad esempio, sulle cui rive nacque Shakespeare). Da *uodr abbiamo invece sia il greco ὔδοϱ che il germanico water/Wasser.

Questa distinzione si riverberava anche nei nomi di animali: solo per assimilazione e semplicità molte lingue moderne (come l’italiano) tendono a produrre il femminile dal maschile. Il cavallo può così essere sia maschile che femminile (eventualmente flesso in una sgradevole “la cavalla”), ma questa dicotomia è così radicata nella nostra mente nella nostra cultura che, quando del cavallo si prende l’elemento più connesso alla sessualizzazione, il linguaggio distingue nettamente fra stallone e giumenta, e per la stessa ragione abbiamo il focoso toro cui e la placida mucca…

In altre parole: sebbene in casi eccezionali alla donna fossero concesse alcune libertà, essa era intesa come poco più di un oggetto, ci piaccia o meno, spesso priva di un nome proprio. Lasciando a parte i casi di Elena (che probabilmente cela un’antica divinità dell’alba, la Mater Matuta latina) e di Andromaca, che Omero non a caso incesella in contesto narrativo più moderno (il personaggio del marito Ettore cela probabilmente il dio del Sole, augusto ed antichissimo antagonista del Dio del Fulmine, qui incarnato da Achille, ma Omero lo reinterpreta in un senso del tutto estraneo alla virile belligeranza del passato PIE), le due donne da cui parte la narrazione omerica si chiamano semplicemente “Figlia di Crise” (= Criseide) e “Figlia di Brise” (= Briseide), seguendo un’usanza che lo stesso Omero riprende creando nel consesso divino la figura di Dione (= “la signora Zeus”), e che era particolarmente fruttifera nel mondo indo-iranico, dove tutte le divinità femminili si chiamano “Signora…” partendo dal nome del marito (Indrani per Indra, Saraiya per Surya e così via), per non parlare dell’area slava – in cui il nome della donna era quello paterno girato al femminile, come nel caso della moglie di Igor’ (Слово о полку Игореве, Canto della Schiera di Igor’), Yaroslavna ovverosia… “figlia di Yaroslav”. Usanza che persiste nella femminilizzazione del cognome, che così flesso spesso rimpiazza il nome vero e proprio (per restare a casi recenti: Sharapova da Sharapov, Gorbaciova da Gorbaciov etc) e che ritroviamo, facendo un salto indietro, nell’area latina, ove alla donna era concesso un solo nome contro i due o addirittura tre dei fratelli maschi, impersonalmente ricavato da quello della gens di appartenenza. Non casualmente la storia romana è punteggiata da una pletora di Giulie, Porzie, Agrippine, Camille e Cornelie… le quali, per altro, solo occasionalmente erano in qualche relazione famigliare.

Proba (rispettosa delle leggi umane), Pia (rispettosa delle leggi divine), Pudica, Lanifica (che passa il suo tempo a fare la lana, e nient’altro), Domiseda (che passa tutto il suo tempo stando in casa) ed Univira (sposata ad un solo uomo): secondo Catone il Censore, o Cato Maior che dir si voglia, nessun complimento poteva essere più gradito per una donna romana d’antan che vedere scritti questi attributi sul proprio epitaffio. Premesso che la storia romana sia costellata da donne che pudicae e domisedae non dovevano essere, e men che meno lanificae, a meno che “far la lana” non si intenda per metafora di altre attività compiute fra le mura domestiche (dell’univiritas inutile parlarne, specie dopo la fine delle guerre puniche, con il sostanziale sterminio di una generazione senatoria maschile), il mondo greco-romano possedeva però un’immagine tutt’altro che fittante a quest’identikit.

Parliamo delle Amazzoni, le mitiche donne guerriere che tanto hanno colpito l’immaginario collettivo occidentale da rendere proverbiale etichettare come “amazzone” qualsiasi donna di natura indipendente, atletica, e purtuttavia di aspetto indubitabilmente femminile. Proprio da questo dettaglio vale la pena partire, spazzando via la vecchia etimologia del loro nome. Secondo Erodoto, che tanto ci ha tramandato ma che pure ci ha trasmesso un numero spaventoso di erronee etimologie, il greco Ἀμαζών sarebbe derivato dal fatto che queste si “privassero del seno” (a-mastòs) per meglio tirare con l’arco. A conti fatti, e considerando che le ottime performances delle tiratrici con l’arco moderne mettono in dubbio l’opportunità di una simile ferita rituale, è più probabile che il termine greco sia un prestito da qualche lingua iranica: prima di tutto, Esichio di Alessandria ci tramanda una glossa “ἁμαζακάραν· πολεμεῖν. Πέρσαι” che possiamo tradurre così: “hamazakàran: far la guerra. Persiano”. Considerando che l’essere donne guerriere fosse la più specifica peculiarità di queste figure mitologiche, l’ipotesi è molto suggestiva. D’altra parte, va ricordato che Erodoto, nonostante in Persia avesse viaggiato in lungo e in largo, con le lingue iraniche non doveva essere molto a suo agio: celeberrima a tale proposito l’analoga “cantonata” che lo portò a confondere il termine “Anûšiya” ovverosia “compagni” con “Anauša” cioè “immortali”, da cui l’immagine tutta occidentale dei “10,000 Immortali”, che ha eclissato l’assai più consona denominazione dell’élite di un esercito come “comitatus” del re (e tradizionale, oltre che consona: senza scomodare Re Artù e Carlo Magno ed i rispettivi Cavalieri, della Tavola Rotonda o Paladini, i corpi d’élite degli eserciti germanici e slavi erano composti dai “compagni” del Re). Ad avvalorare l’etimologia di Esichio, il fatto che le Amazzoni siano poste da Erodoto nell’area scitica, corrispondente all’odierna Ucraina meridionale, con qualche divagazione verso le steppe centro-asiatiche. Aree in cui, all’epoca, vivevano stirpi forse pre-slave, forse iraniche, le une e le altre comunque linguisticamente affini al persiano.
Ad onor del vero, la localizzazione delle Amazzoni è parecchio ondivaga fra le varie fonti: Plutarco, nella Vita di Teseo, ad esempio riprende una versione più antica dello stesso Erodoto, e le pone in area Pontica, ma su tutt’altra sponda del Mar Nero – quella anatolica. Amazzoni avrebbero fondato Smirne, Efeso, Sinope e Paphos, le più grandi città dell’area ionica prive di un attendibile pedigree ellenico, e probabilmente fondate da popolazioni anatoliche assai prima che gli Achei, in fuga o meno dalla Grecia sotto la pressione Dorica, mettessero piede in Asia Minore. Eschilo, che scrive grossomodo nello stesso periodo di Erodoto, con una palese ret-con, risolse l’aporia affermando che sì, in principio esse vissero in Scizia, per l’esattezza nella Tauride, l’odierna Crimea e che poi, in un secondo tempo, emigrarono in area Anatolica, nei pressi di Temiscira, sul fiume Termodone. Una parte di esse, invece, sarebbe emigrata verso la palude Meotide, l’odierno mare di Azov, dove si sarebbe congiunta con un popolo nomade andando a costituire la stirpe dei Sarmati. A dire il vero, gli storiografi dell’antichità sembra facciano a gara per inventarsi sedi ed origini sempre più esotiche per queste donne guerriere. Gneo Pompeo Trogo, agganciandosi ad un più antico racconto di Eforo, le immagina discendenti di due principesse (Sylisios e Scolopicus) della Scizia stabilitesi in Cappadocia (altro esempio di palese ret-con …); Filostrato sui monti Tauri, l’odierno Toros Dağları nella Turchia meridionale; Ammiano Marcellino le fa originariamente vicine degli Alani, guardacaso l’unico popolo di lingua persiana nell’oceano di invasori di germanici che investirono l’Impero Romano d’Occidente; Procopio di Cesarea le posiziona nel Caucaso. Le Amazzoni spuntano persino nella più improbabile vicenda storica dell’antichità, quella di Alessandro Magno: secondo la tradizione, sulla via del ritorno, Alessandro sarebbe stato avvicinato dalle amazzoni della regina Thalestris, la quale avrebbe permesso al re del mondo un agevole ritorno a casa purché si fosse congiunto con lui per 13 giorni e 13 notti, allo scopo di concepire un erede (o meglio: una erede). A salvarci almeno da quest’apparizione pseudostorica è una nota di Plutarco, secondo il quale, quando lo storico Onesicrito prese a leggere suddetto resoconto al committente re Lisimaco di Tracia, che della spedizione originale aveva fatto parte con un ruolo di estrema rilevanza, questi reagì mettendosi a sghignazzare chiedendo al proprio storico dove lui si fosse trovato al compiersi dei suddetti eventi, visto che non se ne ricordava affatto. Interessante tuttavia che, ancora una volta, le Amazzoni siano associate all’Asia, ed in particolare ad una sua certa area, quella solcata dall’invisibile confine fra i popoli iranici civilizzati (i persiani, per farla breve) e quelli più irriducibilmente nomadici (gli sciti, i sarmati, etc).

In sintesi: una certa corrente di pensiero dell’antichità (1) posiziona le amazzoni in area orientale, al confine fra Europa ed Asia, in quella vasta terra di nessuno che, per altro, siamo abituati ormai a considerare la patria della cultura PIE, in quelle che (2) l’antichità greca era abituata ad immaginare come le terre selvagge per antonomasia e (3) le immagina in qualche modo associate alla cultura iranica. Queste basi valgono fino alla tarda antichità, quando improvvisamente l’Occidente è costretto a riscoprire il freddo e lontano nord dell’Europa, che improvvisamente si popola di amazzoni: Claudiano considera Amazzoni alcune donne gote catturate da Aureliano, Paolo Diacono le pone al centro della Germani, mentre Adamo da Brema le localizza sul mar Baltico. L’ennesima ret-con riguardante le amazzoni la compie quindi Jordanes che, nella sua Getica (VI secolo circa) risolve il ghiribizzo storico affermando che, come già evidenziato da Claudiano, le Amazzoni siano di originaria stirpe gotica, i quali Goti (per tutta felicità dei più tardi Alano da Brema e Ammiano Marcellino) effettivamente vissero sia sul mar Baltico che nel cuore della Germania durante la loro lunga peregrinazione verso la Scizia (da cui effettivamente furono scacciati dall’orda Unna… ma questa è un’altra storia), in questo viaggio preceduti da un clan al femminile, guidato dalle principessa Marpeia e Lampedo, che poi avrebbero fondato, sia in Scizia che in Cappadocia, i regni delle Amazzoni. A parte il fatto che la versione di Jordanes risulta semplicemente un collage di Claudiano e degli acconti di Trogo e Diodoro Siculo (a tale proposito, non è un probabilmente un caso che al latineggiante Lampedo, area semantica della luce, faccia da contraltare nella versione originaria greca un nome chiaramente corradicalico di Sole, Sylisios) è abbastanza interessante notare che questa leggenda ricalchi, volta al femminile, il classico plot narrativo relativo alla fondazione di un popolo o di una città. Fratelli erano Ibor e Aion, fratelli Romolo e Remo, e così via: costante di tutte queste vicine è che l’installarsi della casa regia dell’uno sia permessa dal sacrificio dell’altro, sia esso come morte rituale o vero e proprio sacrificio.

Con il termine della Classicità, le Amazzoni non sparirono affatto. Così come non smise di migrare il loro regno: Cristoforo Colombo, Francisco de Orellana e Walter Raleigh ci narrano di Amazzoni o presunte tali sparpagliate per l’appena scoperto Sud America, al punto che il suo fiume più celebre è infatti il Rio delle Amazzoni. Il che ci porta a ciò che il classicista Peter Walcot ha saputo sintetizzare in queste poche parole:
“Wherever the Amazons are located by the Greeks, whether it is somewhere along the Black Sea in the distant north-east, or in Libya in the furthest south, it is always beyond the confines of the civilized world. The Amazons exist outside the range of normal human experience”.

Il che ci permette di completare la struttura circolare di questa narrazione, e di tornare al punto di partenza. Ovverosia: cosa sono realmente le Amazzoni? Una prima ipotesi è che esse siano l’ennesima figura di substrato antichissimo, in qualche modo demonizzato in quanto appartenente ad una cultura spazzata via dall’invasione indoeuropea. E’ un meccanismo, questo, frequentissimo: il dio del tuono si tramuta in diavolo, una divinità lunare nella strega Baba Yaga, e così via. Secondo Johann Jakob Bachofen, esse sarebbero quindi il lascito di una mitica era in cui le sorti dell’umanità non gravitavano nelle mani degli uomini – ma delle donne: il cosiddetto matriarcato. Secondo l’intepretazione convenzionale, i popoli Indoeuropei avrebbero travolto popolazioni il cui pantheon era governato da divinità femminili, come la Magna Mater che tanto spesso troviamo nelle creazioni artistiche neolitiche. Probabilmente, le Amazzoni facevano parte di questo culto, o di altre religioni similari. A parte il fatto che l’ipotesi di Bachofen si è dimostrata non meno pseudostorica di altre astrazioni ottocentesche, l’assimilazione di alcune divinità femminili nei vari pantheon PIE è cosa ben dimostrata, e non da poco tempo. Afrodite/Venere, Freya, Athena, Artemide… sono probabilmente prodotti di “importazione” di religioni mediterranee e parenti prossime della dea Hannahaaa urrita, a sua volta substrato della più famosa Inanna/Ishtar/Astarte mesopotamica e fenica. Ciò, attenzione, non significa affatto che il pantheon di questi popoli fosse solo femminile: gli dèi sumeri sono un’allegra compagine non meno colorita di quella olimpica, con le relative quote rosa, e comunque i posti dominanti sono occupati da divinità maschili, come Anu, Marduk/Assur, Enlil, Ea…

Insomma: lasciando perdere il matriarcato, le Amazzoni sembrano appartenere alla stessa classe di figure mitologiche che annovera al suo interno i Giganti, ma con tutt’altro significato.
I Giganti rappresentano le forze primigenie e più violente della natura, ribelli all’ordine costituito dalla divinità ordinatrice suprema (solitamente, *Dyews o suoi omologhi), contro i quali si scatena pertanto la furia del dio del Fulmine che da ad essi battaglia o in un remoto passato (chiudendo il conto una volta per tutte, come Zeus ed Indra), ciclicamente (come Indra stesso nei confronti degli Asura), o continuamente (come Thor), in questi ultimi due casi comunque ai confini del mondo conosciuto in quanto, diversamente i confini sacri dell’orbe ordinata non potrebbero ospitare la lotta fra ordine e disordine (o per meglio dire, diverso ordine naturale).

Le Amazzoni sono un segno di aperta ribellione all’ordine costituito della società: il loro regno si trova oltre i confini della legge e dell’ordine umano. In un certo senso, esse sono creature crepuscolari, che la fantasia umana pone in una zona di confine fra ciò che è stato oggetto di ordinamento da parte della ragione umana e ciò che rimane privo di qualsiasi logos. Donne sono le Erinni. Donne sono le Sirene. Donne sono le Arpie. Donne sono appunto le Amazzoni. Le quali, attenzione, non nascono tali e quali come Atena dalla testa di Zeus, o come le Walkirie. Diventano tali, almeno in principio, in opposizione a qualcosa o qualcuno. Diventano donne guerriere Lampedo e Marpeia per proteggere la stirpe dei Goti durante l’assenza dell’esercito. Idem per Sylisios e Scolopicus.

D’altro canto, se contestualizziamo il concetto di Amazzone, cosa poteva esservi di più rivoluzionario per le società PIE di una donna guerriera? In una società come quella PIE impegnata in guerre continue, necessarie all’espansione ed alla conquista di nuovi territori, si tratta di una scelta analoga a quella delle suffragette che reclamano il diritto di voto, o delle femministe anni ’60 che bruciano il proprio reggiseno.
Ecco che l’immagine convenzionale delle Amazzoni comincia a sgretolarsi, e la moderna ammirazione lascia spazio all’oscenità ed all’imbarazzo che doveva ammantarle in epoca classica. Una donna che combatte (ecco che l’etimologia del loro nome collettivo acquista bel più profondo senso di una mastectomia bellica)! Una donna, cioè – un oggetto, una creatura priva di propria forza vitale (ricordiamoci che secondo Eschilo, la donna non germina il figlio, ma si limita ad incubare il seme del maschio), che cerca di usurpare un ruolo che da sempre appartiene al polo maschile, al punto che il termine latino “vir” significa, seguendo il contesto, sia uomo che soldato che eroe! Una donna che aspira allo stesso kleòs di Achille!
E probabilmente non è un caso che un fil rouge leghi la figura di Achille (guarda caso il Dio del Fulmine in disguise) e le Amazzoni. E’ un’Amazzone una delle più celebri vittime di Achille, Pentiselea, e sono le Amazzoni che, nell’aftermath della guerra di Troia tentano di distruggere il tumulo funerario costruito da Tetide sulla foce del Danubio. Non apostrofabile come Amazzone, ma sicuramente “amazzoniforme” è Brunilde, la terribile regina di Islanda che – guardacaso, l’omologo nordico di Achille, Sigurdr/Sigfrido, combatte e sconfigge per conto altrui. A tale proposito, mettiamo subito “da parte” l’esito finale del duello. Nel Nibelungenlied in modo meno chiaro, e nelle saghe norrene più esplicitamente, l’incontro fra l’eroe e l’Amazzone si conclude con Brunilde che, sconfitta, viene in un modo o nell’altro deflorata da Sigurdr/Sigfrido (ciò che sarà causa della sua successiva caduta). Persa la verginità, l’apparentemente invincibile donna guerriera diventa sorprendentemente vulnerabile e fragile, dominata persino dall’imbelle marito Hagen, elemento che ci porta ad un altro mito del nord, in questo caso di area celtica – quello di Cu Chulainn. Fermiamoci un attimo, e rivediamo gli eventi che ci suoneranno sorprendentemente famigliari e simili a quanto appena narrato. Cu Chulainn, giovane e bello (tranne quando si infuria, allorché subisce una trasformazione degna di Bruce Banner quando muta nell’incredibile Hulk) vorrebbe sposarsi con Emer, la figlia di re Forgall Monach. Questi, in realtà, non vede troppo bene l’unione fra la prole ed il figlio di Lugh (antica divinità affine ad Apollo, vista con occhio malevolo all’epoca della redazione dei canti dell’Ulster, all’alba della cristianizzazione): con una scusa, acconsente al matrimonio a patto che Cu Chulainn si rechi nella lontana terra di Alba (beh, non poi così lontana, trattandosi della Scozia) per apprendere le arti del più celebre guerriero dell’isola: Scàthach. Guerriero che è in realtà una donna. Cu Chulainn, durante il suo addestramento, apprende l’uso di un’arma terrificante – la lancia Gae Bulg, il cui nome è tutto un programma: “lancia di mortale dolore” – che diventerà un po’ il suo marchio di fabbrica. Sempre durante l’apprendistato, l’eroe dell’Ulster affronterà Aife, la sorella – talora definita gemella, di Scàthach, giunta in Alba per una redde rationem con quest’ultima. La vittoria arride a Cu Chulainn il quale, però, non la uccide: la priva della verginità, anche in questo caso potremmo dire “riducendola allo stato laicale”, ovverosia privandola dei poteri di guerriera, e senza saperlo concepisce con lei il figlio Connla, che nella migliore tradizione tragica sarà ucciso proprio da Cu Chulainn molti anni dopo proprio grazie all’uso della mortale Gae Bulg.

Tornando al confronto con Achille: le pseudo-storiche incursioni delle Amazzoni verso la Tracia sono spiegate come forma di vendetta contro l’assassino della loro celebre regina. Considerando che non v’era, nella cultura PIE, atto più empio del dissacrare le spoglie di un eroe morto, la vera e dispregiativa natura della Amazzoni continua ad apparire con maggiore chiarezza. Il che permette di render merito di una delle più celebri ed al tempo stesso enigmatiche creazioni dell’Impero Greco Medievale, il Dighenis Akritas (Διγενῆς Ἀκρίτας). Essendo opera meno celebre di quelle precedentemente citate, mi permetto una maggiore divagazione sulla trama: Dighenìs (letteralmente “doppia stirpe”) è il nome d’arte di Basilio, figlio di una donna cristiana e di un Emiro arabo che, vuoi per amore, vuoi per grazia, si converte e diventa difensore dei confini dell’Impero. Il contesto storico è infatti rappresentato dalle guerre Greco-Arabe combattute fra 7° e 11° secolo, mentre quello geografico è costituito dall’Alta Mesopotamia, un’area di confine in cui eventi reali come quello che da lo spunto alla storia non erano affatto infrequenti. All’epoca, la salvaguardia dei confini era compito dei cosiddetti “akriti”, soldati di confine, nel cui corpo Dighenìs/Basilio entra dalla più tenera età: l’aspetto per noi più interessante è che, pressoché da subito, il cristiano e medievale Basilio fagocita topoi e vicende proprie di un tipico eroe PIE. Per prima cosa, cresce ad una velocità incredibile, quindi poco più che bambino ammazza due orsi, un cervo ed un leone a mani nude, degno erede dei vari Sigurdr, Achille, Ulisse, Arjuna e chi più ne ha più ne metta. Infine completa la propria adolescenza conquistandosi (o meglio: rapendo) la propria sposa dopo essersi dichiarato e dopo avere vinto in duello il precedente tutore della donna, secondo i dettami del codice d’onore eroico PIE: in sostanzialmente tutte le culture PIE, rapire con l’inganno una donna e possederla era considerato atto disonorevole, e come tale viene interpretato dai Dioscuri il tentativo di rapimento di Elena da parte di Teseo, e quindi della stessa Elena da parte di Paride. Di contro, se Paride avesse vinto a duello Menelao, nessuno avrebbe visto alcunché di illecito nell’appropriarsi della suddetta sposa. Se già questi eventi sembrano un vero e proprio fossile vivente, due successivi episodi nella saga di Dighenis Akritas ci fanno capire come questo romanzo in versi bizantino sia figlio diretto di un passato assai più remoto della sua composizione storica. Per prima cosa, cioè, Dighenis completa il proprio passaggio dall’adolescenza all’età adulta uccidendo … un drago, che tenta di rapirgli la moglie e che, in forma umana, ha le classiche tre teste che ci richiamano i vari Gerione, Azi Dahak e così via. Per non farsi mancare nulla del pedigree eroico, Dighenis elimina anche un ulteriore “mostro a tre teste”, in questo caso rappresentato dai tre capi degli ἀπελάται, un gruppo di banditi che tenta di affrontarlo in un singolo duello. Il che, ancora una volta, ci fa capire che dietro la maschera di Dighenis si celi l’eroe-tipo PIE che millenni di letteratura hanno visto ora come Achille, ora come Arjuna, ora come Cu Chulainn, ora come Artù. Possibile che un eroe dell’occidente medievale sia in grado di emergere improvvisamente dal passato mitologico, per di più ammantato di tutti gli stilemi propri dell’Eroe per antonomasia, l’incarnazione umana del Dio del Fulmine? Possibilissimo quando consideriamo il luogo dove il DA si svolge. Il confine. La terra di nessuno. Lo spazio che non è né cristiano né islamico. L’area crepuscolare. In questo spazio, la fantasia può correre e posizionare quegli eroi e quelle storie che il mondo civilizzato ed urbano non può più ospitare. In questo vuoto, gli antichi dèi e le loro storie possono ancora vivere purché – come il coevo Feridun, si sappiano ammantare di un velo, invero piuttosto sottile, che li renda compatibili alla nuova religione: così, esattamente come Azi Dahak diventa Zahhak, l’arabo invasore, spinto al male da Satana, il Drago che Dighenis uccide è interpretabile nella scia dei dragoni uccisi a schiere da santi cristiani nel corso del medioevo, ovverosia dirette incarnazione del demonio. Allo stesso modo, quando Dighenis morirà (e come Agamennone, sarà nel momento di sua massima vulnerabilità, nella vasca da bagno…), sarà cristiano il suo funerale come quello di Sigfrido nel Nibelungenlied, ma tutto il contorno echeggerà del funerale di Patroclo o della singola pira di Sigfrido, o dell’infinito numero che segna la notte dell’ultima battaglia del Mahabharata….
Bene. Con queste premesse, non è strano che Basilio possa – anzi: debba confrontarsi con l’altra archetipica creatura crepuscolare di cui abbiamo parlato, l’Amazzone. Maximu (o Maximò) e Dighenis si incontrano in un episodio assai articolato, la cui stranezza ha fatto versare i proverbiali fiumi di inchiostro. Andiamo con ordine. L’incontro avviene sulle rive di un fiume: Maximu è stata chiamata in causa dagli apelàti messi in fuga da Basilio, e si interpone fra il guado del fiume stesso e l’inseguito dei briganti.
Basilio e Maximo si confrontano, combattono aspramente finché la scena non si conclude nel modo più inaspettato: i due fanno l’amore sulla stessa erba che aveva ospitato il loro duello. Pochi minuti dopo, Dighenis si allontana, riprende l’inseguimento degli apèlati … poi ci ripensa, torna indietro ed in un baleno – ovverosia, in due sbrigativissimi versi, uccide la donna.

In questa scena c’è qualcosa di sostanzialmente incomprensibile per la mentalità greca medievale – ed infatti l’intelligentia letteraria bizantina faticò molto a metabolizzare questa digressione, così come molti commentatori odierni. Un primo chiarimento diventa possibile nel momento in cui riportiamo alla memoria le vicende di Sigurdr e Cu Chulainn. Che probabilmente discendono dallo stesso prototipo. D’altro canto, questi episodi se ne discostano in modo radicale per la conclusione: Brunilde morirà, ma in altre circostanze, e sia lei che Aife non saranno direttamente uccise dall’incarnazione del dio del Fulmine.
Maximu muore, uccisa in modo quasi barbaro da Basilio. Perché? Prima faremmo meglio ad interrogarci sul perché le altre donne guerriere non facciano la medesima fine. Il che ci riporta alla natura dell’Amazzone. La sua forza, impareggiabile per qualsiasi umano privo dei sovrumani e quasi magici poteri dell’Incarnazione del Dio del Fulmine, dipende dall’essersi posta fuori da un sistema preordinato, ciò che è rappresentato dalla sua prolungata ed innaturale verginità. Nel momento in cui l’Eroe la sconfigge, egli la trascina nuovamente nella sfera della preordinata femminilità. La morte dell’Amazzone diventa quindi un surplus – anzi, più che inutile, quasi una violenza alla natura. Allo stesso modo, dopo il lungo duello che ha preceduto la consumazione dell’amore, Basilio dispone di Maximu con sorprendente facilità, irrisoria rispetto a prima. Il che, nell’ottica citata, ha la sua piena logica: prendendone la verginità, egli ha strappato l’amazzone al crepuscolo, l’ha ricondotta ad una delle immagini (amante, moglie, madre) che tipicamente la cultura PIE è in grado di metabolizzare ed accettare. Così facendo, ha annullato i suoi “superpoteri”. Perché ucciderla, allora?
Perché Dighenis, cristiano in superficie, e profondamente pagano nel suo nucleo concettuale, aspira a quell’onore immortale che muoveva gli eroi omerici. In epoca omerica, il suo adulterio sarebbe passato inosservato. Ma i tempi sono cristiani. La conquista e la seduzione di Maximu sono un adulterio – un peccato. Egli pertanto la annienta. Annulla l’unica ombra alla conquista del kleos che lo muove sin dall’infanzia.

martedì 16 agosto 2011

Il "Diavolo in Carrozza": dal dialetto parmigiano alle vette dell'Olimpo, e ritorno

Le tempeste sono una delle più spettacolari rappresentazioni della forza distruttrice della natura. Il tuono ed il fulmine rappresentano, a loro volta, i principali attori di uno show che, da sempre, viene guardato dall’uomo con un’indissolubile mescolanza di timore ed ammirazione. Prima che la scienza moderna arrivasse a spiegarci che dietro queste manifestazioni naturali vi siano processi fisici relativamente semplici, la fantasia e l’ingegno umano hanno ripetutamente cercato delle spiegazioni che fossero più o meno razionali. Ancora oggi, una diffusa espressione dialettale saluta il toneggiare come “il diavolo in carrozza” – frase che sembra fatta ad hoc per terrorizzare i bambini nelle notti di tempesta e che, di primo acchito, accoglie e materializza nel Male assoluto giudaico-cristiano le ancestrali paure dell’uomo nei confronti delle forze più devastanti di un mondo che è in grado di comprendere fino ad un certo punto.
Ebbene: questa semplice ed ingenua spiegazione pseudo-scientifica nasconde ben altra storia, dai risvolti del tutto inaspettati.

Per prima cosa, l’espressione “il diavolo in carrozza” ha una diffusa rappresentazione geografica. Si ritrova, con varianti locali più o meno accentuate, in quasi tutta l’Italia del Nord ed in alcune aree del meridione. Valicate le Alpi, essa è attestata in alcune aree della Germania, in Svezia, e più in generale in area baltica. La prima e più ovvia spiegazione risiede nel fatto che l’uomo, intuitivamente, abbia riscontrato un’analogia fra il ruggito di un tuono ed il suono prodotto dal correre di una carrozza su una strada acciottolata. Si tratta della spiegazione apparentemente più semplice – non fosse altro che occorre molta, molta fantasia per trovare simili questi suoni, specialmente quando il fondo stradale di riferimento si muti da un’antica strada romana ad un sentiero fangoso faticosamente delineatosi nella spopolata Europa centro-settentrionale.
Esiste una seconda possibilità, che vedremo di esplorare da questo punto in avanti. Che si tratti, cioè, di un residuo di substrato. Ovverosia: qualcosa appartenente ad una cultura più antica, cui la matrice Cristiana si è andata sovrapponendo nel corso dei secoli, mutandone forma e contesto, ma del tutto incapace di rimuoverla completamente dall’immaginario popolare.

Un primo supporto per questa tesi ci viene da uno degli Autori che hanno sostanzialmente “fatto” la classicità, Pindaro. Il quale, nella sua IV Olimpica (v. 1), apostrofa il sommo Zeus come ἐλατὴρ ὑπέρτατε βροντᾶς ἀκαμαντόποδος Ζεῦ (trad. “Auriga eccelso del tuono dai piedi instancabili, Zeus…”), accennando ad un’immagine che Orazio sviluppa ancor più chiaramente nei Carmina (Libro 1, Carmen XXXIV):
Parcus deorum cultor et infrequens,
insanientis dum sapientiae
consultus erro, nunc retrorsum
uela dare atque iterare cursus
cogor relictos: namque Diespiter 5
igni corusco nubila diuidens
plerumque, per purum tonantis
egit equos uolucremque currum,
quo bruta tellus et uaga flumina,
quo Styx et inuisi horrida Taenari 10
sedes Atlanteusque finis
concutitur. Valet ima summis
mutare et insignem attenuat deus,
obscura promens; hinc apicem rapax
Fortuna cum stridore acuto
sustulit, hic posuisse gaudet.
Ovvero:
Parco de’ numi adoratore, e insolito
Folle saper finor seguendo errai;
piegar le vele e correre
or m’è forza il sentier che abbandonai.

Se con la fiamma scintillante squarcia,
qual da talore, le nubi, il sommo Giove,
e per lo cielo il rapido
carro, e i cavalli fulminanti move,

la grave terra, i fiumi erranti tremano,
trema Acheronte, e il baratro profondo
dell’odioso Tenaro,
e l’atlantico termine del mondo.

Dio che imi, e sommi mesce, il grande attenua,
e trae l’oscuro al dì. Sorte rapace
quinci il suo vol tra i gemiti
spiega, e il ferma colà dove le piace.

L’immagine di Zeus e di Giove che traspare da questi versi è ovviamente molto diversa da quella ieratica, distante, quasi immobile, che invece emerge dai più celebri versi omerici. Potremmo definirla inconsueta, non fosse che lo stesso mito, sia in Esiodo che in Ovidio, ci ricorda a chiare lettere che lo Zeus “pater hominum atque divorum” giungesse a tale saldissimo status solo dopo una lunga lotta con la precedente generazione divina, e che scacciare la minaccia di Tifeo gli sia costato una vera e propria pioggia di lampi e tuoni. Sia Pindaro che Orazio ci tramandano quindi un’immagine in un certo senso più “giovanile” della somma divinità greco-romana, qui rappresentata nel pieno delle sue funzioni quale signore del fulmine.
Riaffacciandoci all’ipotesi di partenza, potremmo accontentarci di questa lettura, ed ipotizzare che il “diavolo in carrozza” da cui siamo partiti sia semplicemente la deformazione in senso demoniaco e demonologico della primigenia figura del signore degli dèi, inchinatosi al Cristo trionfante anche in questa sua funzione. Anche in questo caso, la spiegazione più semplice mi sembra del tutto insoddisfacente. Prima di tutto, perché non ci spiega per quale motivo l’espressione idiomatica sia presente in zone che non conobbero la romanità e men che meno un barlume di cultura classica fino a tempi molto recenti.
Un primo punto di partenza ce lo fornisce lo stesso Orazio. Ragionevolmente per ragioni metriche, egli apostrofa Giove come “Diespiter”, un’espressione che in realtà pone le sue radici nella più antica cultura latina, riportando ad un passato in cui – paradossalmente, Giove non era … Giove.

Il dio che abbiamo imparato a conoscere dalle scuole medie come il supremo signore dell’Universo è infatti il risultato di un complesso parto, iniziato già prima che i Greci giungessero in Grecia ed i Latini nel Lazio. Zeus e Giove condividono infatti la stessa radice, il Proto-Indoeuropeo (PIE) *djem, da cui derivano sia i termini “dies” (lat.) che “day” (eng.), cioè “giorno”, che il termine “deus”. Nei Veda, testi sacri indiani, viene quindi ricordata una divinità antichissima, per altro già sfumatasi al tempo della loro redazione, Dyaus Pita. Figura che rappresenta un po’ la quadratura del cerchio, sia a livello linguistico (Dyaus Pita è praticamente identico al Diespiter da cui siamo ripartiti poc’anzi) che concettuale, essendo questi nient’altro che il “padre Cielo”, divino consorte di Prithvi Mata, ovverosia la Madre Terra.
Quadratura, in realtà, assai poco efficiente in quanto dell’omologo linguistico vedico, lo Zeus/Giove e noi più famigliare non trattiene molto più che il nome. E qui si ritorna al complesso processo di gestazione di cui si parlava poc’anzi. Nel mito greco, lo ieros gamos fra cielo e terra viene rappresentato sia da Zeus ed Hera, che dalla precedente coppia Urano e Gea. Ouranos, o meglio *Worsanòs è sempre un termine che indica il cielo – in questo caso, tuttavia, non tanto il Cielo luminoso del giorno, ma quello scuro grave di pioggia (varsati è infatti il termine sanscrito che indica la pioggia). Questo ci porta in un passato estremamente remoto, nella tipica prospettiva dei nomadi delle steppe euroasiatiche quali i popoli indoeuropei furono prima di raggiungere le loro sedi storiche: il germogliare della vita dalla terra subito dopo una pioggia intensa.
*Dyeus, il più antico nome di Zeus/Giove era quindi una divinità appartenente alla sfera della germinazione, e della fertilità – e diversamente sarebbe stato impossibile. Non casualmente, tra i figli di Dyaus Pita abbiamo l’Aurora, e gli Ashvins, la coppia di gemelli cocchieri che nel Mahabharata vengono identificati nei pandava (anch’essi gemelli) Nakula e Sahadeva, da Puhvel e Dumézil riconosciuti come figure della cosiddetta terza funzione indoeuropea. Di questo passato remoto del “sommo Zeus” resta qualche traccia sia nell’appellativo omerico di Eos, “dià” –generalmente tradotto come “divina”, e che in realtà significa “della progenie di Zeus” esattamente come “Dioscuri” sono Castore e Polieduce, i due gemelli, fratelli maggiori di Clitennestra ed Elena (a sua volta antica divinità della luce), spesso e volentieri apostrofati come “domatori di cavalli”.
Zeus/Giove è però il signore del fulmine, una funzione acquisita a spese di una divinità ormai dimenticata e di cui, forse, resta traccia solo nel suo epiteto “Κεραυνός” – ovvero “lanciatore di fulmine”. L’etimologia di Keraunòs è solitamente spiegata dal verbo κερα(F)ίζω ovverosia “devasto / distruggo”. Esiste però uno strano epiteto omerico di Zeus, τερπικέραυνος, solitamente tradotto come “che si delizia nella folgore”, che permette di ricostruire un originale *perkwi-peraunos nel rispetto della consolidata linguistica indoeuropea. Il che porterebbe il termine Keraunòs nel solco del più celebre *Peraunos. Da questa radice derivano infatti i nomi delle due principali divinità del tuono dei Balti e degli Slavi, Perun e Perkunas, nonché (forse) dell’originale dio vedico del fulmine Parjanya. E non solo: da *perkwu deriva anche il latino Querquus, il nome dell’albero più sacro a Zeus e come tale venerato a Dodona. Albero, per altro, sacro a Perun e Perkunas.
Da qui, avremmo la possibilità di spiegare un altro epiteto omerico tutt’altro che chiaro, ovverosia “αἰγίοχος”, solitamente tradotto con un poco coerente “portatore di Egida” - poco coerente perché l’Egida (Αιγίς), era l’impenetrabile scudo di … Atena, che questa aveva poi ornato con la testa di Medusa. Simbolismo fortissimo, cui si è ispirato il ministero della difesa americano alla realizzazione delle batterie difensive delle proprie navi da guerra (chiamato guardacaso sistema AEGIS). Esistono, certo, miti che spiegano il passaggio dell’Egida da Zeus ad Atena, ma tutti – dal primo all’ultimo, sembrano la versione ellenica delle cosiddette “ret-con”, le “continuità retroattive”, espedienti narrativi in cui un determinato evento viene modificato a posteriori per renderlo coerente con gli sviluppi degli eventi. Traducendo letteralmente, αἰγίοχος potrebbe essere letto anche come “che cavalca un carro trainato da capre”. Mettiamoci nei panni degli antichi greci, in particolare di un lettore omerico dell’età di Pericle. Immaginare Zeus, la somma divinità olimpica, l’incarnazione della legge e della giustizia, come una creatura che cavalca un carro trainato da capre poteva avere senso in alcuni riti misterici (che infatti rappresentavano una valvola di sfogo per le aporie rappresentate da riti antichi e non più compresi e men che meno accettati dalla cultura contemporanea), ma non certo nella simbologia ufficiale.
Eppure, tutto ciò ha un senso. Probabilmente, il prototipo di Zeus/Giove – Keraunòs, era strettamente associato allo zoomorfo rappresentato dalla capra/caprone. E’ una capra, infatti, che alleva Zeus sul monte Ida – la leggendaria Capra Amaltea. Ha corna di capra Zeus Ammone, il cui culto precedeva l’ellenizzazione dell’Egitto, se è vero che un suo tempio esisteva a Sparta già al tempo della Guerra del Peloponneso (Pausania, 3.18). E, attenzione: i già citati Perkunas e Perun viaggiano nella volta del cielo su un carro, trainato da due capre. E’ possibile che questa immagine sia un prestito dai prolifici (mitologicamente parlando) popoli scandinavi. E’ infatti trainato dalle capre Tanngrisnir e Tanngnjóstr il carro da guerra del più celebre Dio del Tuono, la cui corsa nel cielo è accompagnata dal detto svedese “äsen körr”. Ovverosia: “il dio in carrozza”.
Eccolo, dunque, il nostro Diavolo in carrozza. Completamente stravolto. Non più il Demonio che, in qualche modo libero dalla sua prigione infernale, percorre le strade del cielo alla ricerca di anime da dannare… no, tutt’altro: ecco il più coraggioso e generoso degli dèi, quello che più di tutti ama gli uomini, che è uscito a dar guerra alle creature infernali. Il rumore del tuono non è più, quindi, qualcosa di cui gli uomini debbano avere paura – ma i demoni, contro i quali la sua furia si rivolge per proteggere l’umanità intera.

martedì 19 luglio 2011

Il capolavoro di Pushkin: Evgeny Onegin. E la letteratura russa non fu più la stessa (parte 1)

Lo Evgeny Onegin (Евгений Онегин: attenzione, ricordo ai non russofoni che la “O” non accentata si legge “A”) di Alexander Pushkin rappresenta un punto di assoluto non ritorno nella storia della letteratura russa. Mutatis mutandis, si pone per le lettere russe allo stesso livello della “Divina Commedia” di Dante, del “Cid” di Corneille, del Don Quixote di Cervantes e delle tragedie di Shakespeare: dopo la sua pubblicazione, nulla sarà più uguale a prima.

Dopo una presentazione così altisonante, e dati i rutilanti paragoni, chi dell'Onegin nulla sa, potrebbe immaginarsi una storia dal tono quantomeno epico. Nulla di tutto ciò. Lo Evgeny Onegin è un poema – un romanzo in versi, come ebbe a definirlo lo stesso Pushkin, e di argomento tutt'altro che eroico, men che meno epico.
Usando i classici schematismi da scuola media, lo si potrebbe quasi definire “un romanzo d'ambiente”, uno di quei tomi solitamente ponderosi di cui è ricca la letteratura ottocentesca e che, alla fine della fiera, sono caratterizzati dalla sostanziale preponderanza della cornice narrativa sulla storia in essi narrata. Lo so: una presentazione che potrebbe scoraggiare la maggior parte dei lettori. A ciò aggiungendo che, essendo lo Evgeny Onegin romanzo in versi, sia difficilmente aggredibile per un lettore che non sia in grado di leggere almeno una parte dei versi - Pushkin, se letto in traduzione, perde il 90% del suo immenso valore. Eppure, quel poco che rimane è più che sufficiente a giustificare una lettura per altro assai piacevole anche se ci limitiamo alla crosta più fragile ed esterna.

Riassumendo, il plot dell'Onegin è assai semplice. Evgeny Onegin, l'eroe eponimo, è un ragazzotto del primo ottocento pietroburghese, in molti aspetti assai simile al giovane Pushkin pre-decabrista. Permeato di cultura inglese, soprattutto nella sua declinazione byroniana, passa da una festa all'altra, da un amorazzo all'altro, dilapidando senza troppe preoccupazioni l'eredità paterna, che comunque scopriamo rovinata dallo stesso degno genitore (lo stesso Pushkin, nonostante l'indiscutibile successo letterario, arriverà ad ipotecare 200 dei 220 servi della gleba pochi giorni della prima della morte in duello):
“... fu a quel tempo
che morì suo padre, e un avido
reggimento di strozzini
d'adunò davanti a lui,
tutti a dir la sua.”

Vale la pena di sottolineare già qui una delle grandezze assolute di Pushkin, soprattutto per chi non l'abbia mai letto. La capacità, cioè, di descrivere con lievità ma anche con estrema precisione delle realtà del suo tempo. Mi spiego meglio: come vedremo, Pushkin sa parlare con forza anche al tempo futuro - anzi di "vedere" un futuro (e la figura di Tat'jana in questo è emblematica), ma sa anche rappresentare e cogliere con precisione assoluta il tempo che lo circonda. Usando l'ironia, dove serve - come nel passo di cui sopra. Che però rappresentava la quotidianità per una generazione (o meglio: degenerazione) di nobili rovinati dalla crisi economica. Attenzione: in questo, Pushkin è sorprendentemente più moderno del geniale Tolstoj. Mentre questi è costretto ad escogitare matrimoni fortunosi per risolvere i dissesti economici di una parte dei suoi quasi coevi protagonisti di Guerra e Pace (e lasciamo stare le sue proposte di riforma economica di Anna Karenina...), Pushkin parte da questi versi di tono quasi scherzoso e, nel prosieguo del romanzo, senza mai atteggiarsi a profeta o trombone, fa attive proposte di riforme sociali che, però, maschera così bene da renderle palesi solo ad una lettura molto profonda.

Tornando al romanzo, non a caso i primi versi del poema sono una breve e geniale istantanea sui pensieri di Onegin, dedicati ad anonimo zio, di cui il giovinastro aspetta impazientemente la morte che lo farà beneficiario di una nuova rendita:

Quel sant'uomo di mio zio!
Guarda cosa ha escogitato
per aver rispetto quando
per davvero s'è ammalato.
Il suo esempio faccia scuola;
ma, perdio!, che noia stare
giorno e notte ad un capezzale,
senza muoversi d'un passo!
E che bella ipocrisia
coccolare un moribondo,
rassettarlo sui guanciali,
dargli farmaci e conforti,
sospirando dentro sé:
ma che il diavolo ti porti!


Alla morte dello zio (strofa LII), Onegin si ritrova beneficiato di una rendita che, però, lo obbliga a lasciare il mondo pietroburghese in cui tanto si trova a suo agio:

“e ecco Onegin insediato
nella piena proprietà
d'acque, boschi, terre e fabbriche.”


Ovviamente, un giovane annoiato come Onegin, che si reca sbadigliando al funerale dello zio (“Letto il triste annuncio, Evgeny / partì subito in corriera, / per vederlo, preparandosi, / sbadigliando già in anticipo / a sospiri, noia e recite / per amore del quattrino”) non può trarre grande interesse dalla vita di campagna, che alla seconda giornata l'ha infatti già stancato. Ora: la tentazione più forte potrebbe essere quella di vedere in Onegin una maschera di Pushkin – niente di più sbagliato. Pushkin in questo è come Dante: non si limita a narrare. Se Onegin si ispira ad una parte della vita di Pushkin, questi s'affretta a porre dei paletti – a dire “io”. Arrivando persino alla contrapposizione con il suo protagonista. Si tratta di un dato rivoluzionario per la letteratura russa, che mai aveva conosciuto un “io” poetico così forte – senza il quale, né Tolstoj né Dostoevskij sarebbero pensabili. Tanto è annoiato Onegin della vita di campagna, tanto Pushkin dichiara di amarla: “Io son nato per la quiete, / per la vita di campagna: / più è in disparte e più sonora / è la voce della lira, / e la fantasia più accesa.”

In realtà, quasi mai qualcosa è in Pushkin esattamente ciò che sembra. Più spesso, la realtà si cela sotto una maschera di apparente banalizzazione – grattata via la quale, l'estrema profondità poetica del Veliki Knjaz della poesia russa erompe con la forza di una tempesta: quando Pushkin scrive questi versi, egli è appena rientrato dall'esilio forzato in Crimea. Pur beneficiando di una grazia, è confinato in campagna, nelle proprietà paterne. Può essere vero – come ebbe a scrivere anche altrove, che la vita di campagna lo aiuti ad affilare le armi poetiche... ma niente più che una breve pausa per un uomo abituato alla bella vita pietroburghese.

Nel buen retiro campagnolo, Onegin fa conoscenza di un vicino – Lenskij. Che non potrebbe essere personaggio da lui più diverso:

“Vladimir Lenskij il nome,
gottinghiana la sua anima:
un kantiano nel fior fiore
dell'età: bello e poeta.
Questi i frutti degli studi
che con sé aveva portato
dalle nebbie di Germania:
fantasie di libertà,
mente fervida e un po' strana,
foga, sempre, nel discorso
e la zazzera sul dorso.”


In altre parole: tanto è byroniano il nostro Onegin, tanto è prototipo dell'esistenzialista il buon Lenskij. “Cuore tenero e inesperto”, le sue incertezze, i suoi dubbi, la sua perenne distrazione, sembrano (sono) costruite a specchio sul disincantato “menefreghismo” di Evgeny.
Così, quando il giovane Lenskij che ostinatamente “credeva nel destino, / in un'anima gemella / che languendo sconsolata / ogni giorno lo aspettava; / in amici sempre pronti / ad andare per lui in carcere / ed a smentire senza indugi / chi l'avesse calunniato” decide di presentare ad Evgeny la propria amata, questi si aggrega con fare disincantato. Ol'ga – questo il nome della predestinata, per cui aveva emesso “il primo gemito / la zampogna del poeta”. E qui Pushkin compie l'ennesima zampata: descrivendo come il povero Lenskij sia preso da passione per Olga, ricorre alle parole ed ai topoi di Karamzin, il leader indiscusso del sentimentalismo Russo. Prima di diventare il padre della storiografia russa, la sua Бедная Лиза ("La povera Liza" ... un nome, un programma) aveva fatto versare ettolitri di lacrime alle signore di buona famiglia – imponendo a queste ultime e ad una parte della poesia russa una lingua rarefatta e raffinata, irrimediabilmente confinata al solo “stile medio” di Lomonosov. Pushkin, che dallo studio di Barkov aveva ereditato la capacità e soprattutto la necessità di mescolare i tre generi in una creazione armonica, ovviamente usa queste citazioni per deridere il celebre rivale ed imporre la propria poetica.
Bene: conosciuta Ol'ga, Onegin ne rimane piuttosto deluso. Abituato alle insopportabili odi di Lenskij, mielose fino allo sviluppo del diabete, non rivede nulla in lei – soprattutto, in lei non vede nulla che giustifichi l'entusiasmo dell'amico: non che le manchino bellezza e tutto sommato una certa intelligenza ma...
“... ma predente/un qualsiasi romanzo,/c'è di certo il suo ritratto:/uno schianto – anch'io l'ho amato,/ ma perdio se m'ha stufato!”

E come Pushkin si stufa in fretta di Ol'ga, così Onegin. Che invece è in qualche modo colpito dalla sorella maggiore.

“ieie siestra svalas' Tat'jana ...” - “sua sorella si chiamava Tatiana”.

E la poesia russa non sarà mai più la stessa........

domenica 17 luglio 2011

Impostori, Assassini e Salvatori della Patria: la "Smuda" (1598 - 1613)

Quello che segue è un capitolo sanguinoso e ben noto della storia russa – ma che potrebbe ben figurare sulle pagine di un romanzo. Un giallo, o un thriller dalle tinte molto fosche. Con una spruzzata (anzi: ben più di una spruzzata) di intrighi internazionali. Con il sottofondo di ciò che potremmo definire “il sorriso che cela le lacrime”, giusto per citare Gogol' (e Pirandello).

Ivan IV, da noi meglio conosciuto come “il terribile” a causa della nota, maldestra traduzione occidentale del termine russo “groznyi” (in realtà, celebrativo dei suoi iniziali successi nelle guerre contro i khanati musulmani del Volga) segna l'apice rinascimentale della Moscovia. Con alti e bassi, questi ultimi prevalenti nell'ultima parte del suo regno, il grande Riurikide è riuscito a costruire uno stato centralizzato, militarmente molto consistente, con un sistema di tassazione finalmente efficiente ed in grado di sostenere economicamente uno stato moderno. In realtà, questa è solo una faccia della medaglia. Per prima cosa, la Moscovia continua a mancare di uno sbocco sul mare, sia esso il Baltico o il Mar Nero, il che compromette la competitività internazionale dei commerci, e “de facto” rende il mercato interno russo terreno di caccia dei commercianti dell'Hansa. Le continue guerre sostenute da Ivan IV per risolvere quest'annoso problema si traducono in altrettanti insuccessi, che prosciugano le risorse umane e finanziarie del Paese. Dulcis in fundo, Ivan non ha realmente risolto il secolare problema dell'interfaccia con lo sterminato territorio russo. Al termine di un lungo e sanguinoso tira-e-molla con boiari, e la chiesa ortodossa, Ivan ha semplicemente posto sotto il proprio diretto controllo una buona metà del Paese, che amministra per tramite di una nobiltà di servizio, i così detti “dvorianin” (dvor è il cortile, l'aia di una fattoria: chiaro il riferimento ad un certo tipo di attività agraria). Si tratta dell'oprichnina (Опри́чнина), termine cui ancora oggi i Russofoni guardano con doloroso sospetto. L'oprichnina rappresenta infatti un vero e proprio sistema di potere sostenuto da una polizia segreta direttamente controllata dallo Zar, da violenze e barbare efferatezze: uno stato nello stato, in cui violenze e spoliazioni compiute dagli uomini dello stesso Zar (forse memore dell'antico kormlienie di kieviana memoria) sono all'ordine del giorno. Uno stato-matrioska che per di più cresce a spese del sangue dei boiari e del popolo: anticipando i dittatori del XX secolo, Ivan IV istituisce un vero e proprio sistema del terrore in tutto lo stato, le cui violenze sono sistematicamente rimandate ai boiari che, di volta in volta, Ivan intende spogliare di terre e servi della gleba. All'occorrenza, gli oprichnik fabbricano le prove di cui lo Zar ha bisogno per sostenere le sue accuse.
Per farla breve: fra il 1564, anno in cui le fasulle dimissioni da Zar di Ivan IV danno il via alla creazione dell'oprichnina ed il 1572, la Russia viene progressivamente stritolata. Ivan IV, pur rimanendo al trono per 12 anni, si rivela sempre più incapace di sfuggire al sistema di terrore da lui stesso creato, e così di proporre soluzioni alternative: l'obiettivo di costruire uno stato moderno viene divorato dagli stessi strumenti che avrebbero dovuto portare alla sua nascita.
Molto si è favoleggiato sulla follia di Ivan IV. Ricontrollando a ritroso l'albero genealogico dei Rurikidi, soggetti di comportamento quantomeno bizzarro, ovvero violento ai limiti dell'eccesso, non sono affatto rari. Ivan è forse il caso più noto. L'episodio più eclatante è legato alla morte del suo erede designato, Ivan Ivanovic (1554 – 1582) da lui stesso ucciso con il suo scettro all'apice di un incontrollato scatto d'ira. Anticipiamo qui che la madre di Ivan Ivanovic fosse figlio di Anastasia Romanovna, e che proprio la parentela con la Zarina sarà una delle carte vincenti di Mikhail e Filaret Romanov nell'imporre la nuova dinastia alla conclusione dello Zemsky sobor, nel 1613.
La morte di Ivan apre una profonda crisi dinastica: oltre allo citato e sfortunato zarevic, Ivan IV ha due figli che paiono del tutto inadeguati a succedergli. Fëdor (1557 - 1598) è indolente, di intelletto lentissimo, sospetto portatore di qualche precoce forma di demenza. Per di più, sussurrano alcuni storici piuttosto maligni, di probabile orientamento omosessuale e quindi privo di una propria progenie. Il figlio più giovane di Ivan, Dmitri Ivanovic, è niente più che un neonato (nato nel 1581) e per di più è figlio del settimo (o forse ottavo...) matrimonio dello Zar. Diversamente dalla Chiesa Cattolica, per la quale tutti i matrimoni hanno la stessa dignità, la Chiesa Ortodossa riconosceva tuttora l'interpretazione di Nicola il Mistico (da mystikos, ovverosia “segretario imperiale”), patriarca di Costantinopoli ai tempi di Leone il Saggio (IX secolo), per la quale solo i primi tre matrimoni producono prole legittima. In altre parole, Dmitri era del tutto inadeguato a rimpiazzare il mediocre Fëdor nel caso di un precoce decesso del padre Ivan. Evento che, per altro, si materializza con diabolica intempesticità nel 1584, quando Ivan è colpito da un attacco cardiaco durante una partita di scacchi.

Certamente, il principio dinastico in Russia ha fatto passi da gigante dai tempi di Vlamidir Monomakh, e lo stesso Ivan IV (diventato veliki knjaz di Mosca all'età di 14 anni!) ne è la prova diretta. Tuttavia, la citata e critica situazione del governo moscovita rende necessario un sovrano di polso ben diverso da ciò che la dinastia Rurikide è al momento in grado di offrire.
La particolare situazione creatasi apre un vuoto di potere nel quale si insinua una figura discussa, a dir poco ambigua: Boris Godunov (Борис Фёдорович Годунов, quindi da leggersi Barìs Gadunòv). Boris Godunov è l'antesignano di una nuova era per lo stato russo. Per prima cosa, non è un russo etnico. E' bensì discendente di Chet - un Khan Tataro che, nel XIV secolo, aveva correttamente intuito il mutamento nell'equilibrio di forze fra Tataria e Russia, scegliendo quest'ultima per se e la propria famiglia. Secondariamente, proviene da Kastroma, alle estreme propaggini orientali della Russia Europea. Un'area che, all'epoca, stava vivendo una vorticosa crescita economica e demografica, sostenuta dalle floride rotte commerciali asiatiche che avevano progressivamente sostituito quelle di direttrice nord-sud che avevano fatto la fortuna di Kiev. La famiglia di Godunov, oggi estinta, era riuscita a raggiungere un rango piuttosto elevato nella nobiltà russa: all'inizio del regno di Ivan IV, i Godunov già facevano parte dell'élite boiara. Da simili premesse, l'ascesa di Boris sarà apparentemente inarrestabile.
Nel 1570 lo ritroviamo poco meno che trentenne come arciere e fra le guardie scelte di Ivan IV e quindi, nel 1571, fra gli oprichnik, ai vertici della polizia segreta. L'anno seguente, si sposa con Maria Grigorievna Skuratova-Belskaya, figlia del capo degli oprichnik Malyuta Skuratov-Belskiy. Grigory Lukyanocivh, meglio noto come Malyuta, è tuttora ricordato come il più sanguinario e fedele degli oprichnik: a lui, Ivan aveva affidato l'eliminazione del cugino e cancelliere, Vladimiro di Staritsa (1569), del metropolita di Mosca Filippo II, l'unico reale oppositore rimasto del regime di Ivan (sempre 1569), nonché l'eliminazione di 1000 cittadini di Novgorod ritenuti in qualche modo responsabili degli insuccessi militari nel nord (1570) e di un numero imprecisato (sicuramente qualche migliaio) di ufficiali ritenuti a loro volta colpevoli del disastro militare in Crimea (1571). Alla morte di Skuratov, nel 1572, la posizione di Godunov andò rafforzandosi: non è molto chiaro cosa accadde, né quali mosse segnarono le fasi successive della sua ascesa politica – ma nel 1580 Boris arriva a proporre allo Zar nientemeno che la propria sorella Irina come moglie del secondogenito ed imbelle Fëdor. A tale proposito: a dispetto di quanto potremmo pensare, non solo Godunov non ebbe alcun ruolo attivo nell'assassinio dello Zarevic Ivan nel 1582, ma i testimoni oculari dell'evento ci raccontano che lo stesso Boris avrebbe riportato gravissime ferite nel tentativo di salvare l'erede al trono dalla furia omicida paterna.

Alla morte di Ivan IV, è dunque Boris il vero e proprio “uomo forte” della situazione: non casualmente Ivan, in punto di morte, nomina lui, Fëdor Nikitich Romanov (o Nikita Romanovic) e Vasili Shuiski come alto consiglio di reggenza e di supporto a Fëdor – della cui idoneità al regno lui stesso dubita profondamente. Dal 1584 al 1586, la figura di Godunov è sovrastata – almeno formalmente, da quella del più anziano Nikita Romanovic, alla cui morte Boris diventa l'indiscussa guida del Paese. La posizione di Boris è tanto forte da resistere ai complotti di palazzo tramati dai Boiari nel corso del quinquennio seguente, ed in particolare dal putsch del 1587 tramato dal metropolita di Mosca Dionisio II: i congiurati sono uccisi od esiliati, lasciando Boris de facto padrone assoluto del Paese. E, come tale, Boris si rivela amministratore competente e sorprendentemente preparato. A livello militare, nel decennio 1587 – 1597 Boris riesce a rimediare ai disastri delle ultime guerre di Ivan, a nord riconquistando buona parte dei territori persi alla Svezia e sconfiggendo i Tatari ed i Turchi di Crimea, sia sul suolo russo che sulle rive del mar Nero. A livello economico, Boris mette in atto quella che sarà la rivoluzione copernicana dell'economia russa, destinata ad influenzarne la politica estera fino alle guerre napoleoniche. Il primo atto è rappresentato dall'autorizzazione ai mercanti inglesi di installarsi sul suolo russo. I britannici sono destinati a soppiantare l'Hansa nel controllo dei commerci, e lo faranno aggiungendo una nuova dimensione, quella atlantica, ai beni pregiati russi. Il secondo atto, di ben altro orientamento, è rappresentato dall'istituzione formale della servitù della gleba. A tal proposito, vale la pena spiegare le ragioni di un atto di questo genere: il regime di terrore di Ivan aveva spinto masse enormi di contadini a lasciare le proprie terre, cercando una nuova vita lontano dal controllo dello Zar e dei Boiari nelle terre strappate ai Tartari con le guerre contro Kazan' e Astrakhan. Si tratta della cosiddetta “Novaya Russija”, che sarà di critica importanza politica nei secoli a venire. I contadini non si limitano ad espandere i confini geografici della Russia popolata da russi etnici: una parte di essi, trovandosi ai confini dello stato, esposti alle rappresaglie turche e tatare, si da, più o meno spontaneamente, un'originale organizzazione anarchico-guerrigliera. Stiamo parlando dei Cosacchi, il cui nome basta ad evocare eventi di capitale importanza storica, come l'ascesa al trono di Caterina II, o persino la Rivoluzione Russa del 1917.
L'istituzione della servitù della gleba è quindi un disperato tentativo di frenare l'emorragia di uomini – un tentativo i cui esiti finali saranno controproducenti, compromettendo in modo strutturale la competitività internazionale dell'agricoltura russa.
L'ultima innovazione di Boris, nel 1597, è rappresentata dall'innalzamento al rango di Patriarca del metropolita di Mosca. Vale la pena ricordare che dei quattro patriarcati originari indicati dal concilio di Nicea (Roma, Alessandria, Gerusalemme ed Antiochia), e così il successivamente istituito Patriarcato di Costantinopoli, solo quello di Roma (ovverosia il Papato) non si trovasse sotto il più o meno diretto controllo turco (e quindi musulmano): innalzare Mosca al rango di patriarcato era un'azione rivoluzionaria dal punto di vista concettuale, ed un chiaro messaggio politico alla Sublime Porta Ottomana – un tentativo tutt'altro che celato di portare la Russia allo stesso piano del Sultanato.

Il 7. Gennaio dell'anno 1598, il programma politico di Godunov acquista un significato molto più profondo. Alla morte senza eredi di Fëdor, la dinastia Riurikide si trova di fronte alla più grave crisi della sua storia. La discendenza legittima di Vladimiro il Santo, quantomeno nella branca di Vladimir Monomackh, Yuri Dolgoruki, Alexandar Nevsky e Dmitri Donskoy (i cosiddetti Danilovici), si è infatti estinta. Dmitri, l'ultimo figlio di Ivan IV, è per di più morto nel 1591 in circostanze quantomeno dubbie, ucciso da un pugnale con il quale stava giocando. A complicare le cose, i Riurikidi non Danilovici più vicini alla famiglia reale sono stati sterminati da Ivan e dai suoi oprichniky. Ed è qui che Boris Godunov può meglio giocare le sue carte, e passare all'incasso del credito acquisito nel decennio di reggenza. Dvorianin e Boiari sono stati beneficiati dalla conquista di nuove terre e dell'istituzionalizzazione della servitù della gleba. I mercanti russi, grazie alla nuova direttrice commerciale garantita dai britannici, possono esportare le proprie merci su un territorio più vasto, con conseguente crescita degli introiti. La Chiesa Ortodossa Russa gode di un prestigio enormemente superiore rispetto ai tempi dei Danilovici, per i quali il metropolita ricadeva sotto la diretta protezione (= autorità) del Vieliki Knjaz.
Le forze in gioco non hanno grosse difficoltà nel riconoscere Godunov come garante ideale dei propri interessi: su suggerimento del patriarca Giobbe il 21. Febbraio 1598, dopo soli quattro giorni di dibattimento, Boris viene proclamato Zar dallo Zemsky Sobor, una specie di parlamento istituito da Ivan IV.
Nei 7 anni di regno, Boris agì come un sovrano di polso, ma capace di proseguire sulla strada del rinnovamento statale intravista da Ivan IV con maggiore coerenza e molto più buon senso. Il che, ovviamente, non poteva lasciare indifferente la principale potenza militare dell'Europa orientale: la Polonia-Lituania. Che, alla morte di Boris, nell'Aprile 1605, coglie l'attimo ed interviene direttamente nelle vicende russe. Tingendo la storia di giallo.

Il sedicenne figlio di Boris, Fëdor II, regna da pochi mesi quando – alle frontiere dello stato moscovita, compare un misterioso straniero. Che si dichiara nientemeno che Dmitri Ivanovic, il figlio di Ivan IV. Ovviamente, abbiamo a che fare con un impostore, un ruteno di nome Grigory Otrepyev, inviato dai Polacchi per destabilizzare la successione di Boris. Il cui figlio Fëdor, oltre che giovanissimo, era poco amato dal popolo in quanto discendente per parte materna del brutale Skuratov, il cui ricordo era tutt'altro che assopito. Se il piano dei Polacchi può sembrare abbastanza creativo, ancor più sorprendente è il suo esito: nel giro di pochi mesi, i Cosacchi e i Boiari della fazione repressa da Boris si coalizzano contro il sovrano legittimo e lo uccidono. Il Falso Demetrio diventa zar, conservando il trono per oltre un anno. Nel corso del suo regno, l'impostore pone le basi di una stretta alleanza militare con i Polacchi e, nello stesso tempo, inizia a destabilizzare le riforme di Boris, penalizzando i diritti di Boiari e Dvorianin, ed umiliando a più riprese la chiesa ortodossa russa (come in occasione del suo matrimonio, con una principessa cattolica). E' presumibile che l'obiettivo finale di Demetrio fosse l'assorbimento della Russia nello stato Polacco Lituano, il che avrebbe radicalmente cambiato la Storia di questo grande Paese.

Tuttavia, Demetrio e i Polacchi non avevano fatto i conti con il fortissimo orgoglio nazionale russo, forgiatosi negli anni del gioco mongolico – e con il nuovo equilibrio di poteri determinato da Boris. I Boiari hanno ben chiaro che, con i Polacchi, i loro secolari domini saranno definitivamente spartiti dai nuovi invasori. Al loro arrivo è presumibile che la servitù della gleba sia smantellata, togliendo ogni forza economica agli dvorianin. Per concludere, l'inserimento della Russia in un sistema commerciale polacco-lituano marginalizzerebbe del tutto i mercanti russi, proprio nel momento in cui essi hanno trovato nuovi e più floridi mercati.
Risultato: le forze più vive dello stato russo si coalizzano dietro la figura del principe Schuisky, l'ultimo riurikide rimasto, che detronizza Dmitri e diventa Zar con il nome di Vasili IV.

Fine dalla vicenda? Tutt'altro: se i Russi chiamano il periodo compreso fra la morte di Boris e l'incoronazione di Mikhail Romanov come “epoca dei torbidi”, un motivo ci sarà. Difatti, appena Vasili diventa signore di tutte le Russie, i Polacchi mettono in gioco un nuovo usurpatore: un nuovo falso Demetrio. Lo stato sprofonda in un vorticoso susseguirsi di guerre intestine ed assassini di palazzo (accompagnati dalla comparsa nel 1612 di un terzo e fortunatamente ultimo Falso Demetrio...), mentre gli Svedesi ed i Polacchi colgono l'occasione per invadere in forza il territorio russo. Un disastro continuo da cui la Russia sarà strappata solo alla fine del 1612 quando Dmitry Pozharsky (un boiaro) e Kuzma Minin (un mercante) organizzano un'armata di volontari che si pone alla diretta dipendenza del già citato Zemsky Sobor e riesce a scacciare gli invasori. Tutt'oggi, i due personaggi sono immortalati da un bellissimo monumento sulla piazza Rossa, in prossimità di San Basilio, a ricordo dei due uomini che salvarono la Russia e le permisero di arrivare fino a giorni nostri.

martedì 12 luglio 2011

Buon compleanno, San Basilio!

Oggi, 12. Luglio, ricorre il 450° anniversario della Cattedrale di San Basilio, o più correttamente della Cattedrale dell'Intercessione della Teotokos sul fossato (Собор Покрова Пресвятой Богородицы на Рву). Con la sua struttura particolare, le sue cupole coloratissime a forma di turbante, essa rappresenta molto più che il simbolo di Mosca – in un certo senso, essa è simbolo della stessa Russia.
Vale quindi la pena fare un passo indietro, e capire perché si sia arrivati – il 12. Luglio del 1561, ad inaugurare questa meraviglia del mondo moderno.
Tanto per cominciare, la sua posizione: essa si trova a Mosca, subito fuori dal suo Cremlino. Abituato a considerare per sineddoche il Cremlino come sinonimo di Mosca, spesso il lettore occidentale dimentica che la maggior parte delle città russe di origine medievale abbia un suo Cremlino. La parola russa кремль significa semplicemente “fortezza”, e quindi indica la parte fortificata delle città russe – quella parte che in un certo modo eredita la funzione del primitivo “gorod” e che, fra l'invasione Tataro-mongola e la smuda, viene abitata dal principe locale o, nelle città dipendenti da una più forte autorità centrale, dal locale namestnik (o viceré), dai suoi armati e dall'amministrazione cittadina. Va da sé che, in determinate circostanze (come le ripetute incursioni tatare) il Cremlino possa svolgere funzioni simili ai castelli medievali, accogliendo buona parte della popolazione cittadina.
Tornando alla Cattedrale dell'Intercessione, trovarsi nella Piazza Rossa, all'esterno del Cremlino, ha un significato preciso. Essa fu costruita nell'ambito della più complessa riorganizzazione di Mosca organizzata dai successori di Dmitri Donskoy. Come abbiamo visto in un post precedente, nel 1380 quest'erede di Alexander Nevsky riuscì a sconfiggere l'Orda nella battaglia di Kulikovo, acquisendo un prestigio senza pari su tutto l'ambito degli Slavi dell'Est. Aggiungendo che, negli stessi anni, l'Impero dei Paleologhi stava venendo divorato dai potentati turchi, il trionfo sugli ugualmente islamici tatari acquisiva un significato ancor più profondo: diventerà una della basi della dottrina di “Mosca, terza Roma” che si diffonderà in area ortodossa a partire dal fatale 1453. Già prima di Kulikovo, Donskoy aveva intuito che buona parte della capacità di ricatto dei Tatari sui Russi fosse legata alla scarsa capacità difensiva delle città russe: costruite quasi tutte in pianura, o su modeste alture, esse mancavano delle fortificazioni naturali delle fortezze caucasiche od europee (per non parlare della leggenderia Costantinopoli, sulle cui capacità difensive naturali persino l'Impero Britannico si spezzerà i denti nel corso del primo conflitto mondiale). Ad aggravare la situazione, quasi i gorod avevano mura costruite in legname – rendendoli di fatto fin troppo vulnerabili agli aggressori. Fra 1366 e 1368, Dmitri non ancora Donskoy, fece costruire un nuovo Cremlino, con mura in pietra e mattoni – sostanzialmente imprendibile per i Tatari, come dimostrato dalla rappresaglia messa in atto dal Khan Tataro Tokhtamish all'indomani di Kulikovo, nel 1382: pur bruciando Mosca, il Cremlino rimase imprendibile, rafforzando ancor di più l'aura già leggendaria di Dmitri.
Negli anni seguenti, i successori di Dmitri, ed in particolare Ivan III, ingrandirono ed abbellirono il Cremlino, decorandolo con chiese come la Chiesa dell'Assunzione. Mancando maestranze locali, la gran parte dei lavori ingegneristici fu svolta ma architetti europei, come i “nostri” Pietro Antonio Solari, Marco Ruffo, Antonio Gislardi, Marco Bon, Aloisio da Milano. Soprattutto la Chiesa dell'Assunzione ha un chiaro significato politico che prepara San Basilio, e la cui percezione ugualmente ci manca. Tale cattedrale è infatti la copia (più o meno precisa) dell'omonima Chiesa eretta a Kiev da Vladimir I il Santo, l'evangelizzatore della Russia. Che, a sua volta, riprendeva le tradizioni bizantine (soprattutto Santa Sofia) interpretandole in ottica kieviana. Chiesa che era stata già precedentemente riprodotta a Novgorod e Vladimir. Con questo primo “step”, Mosca si pone quindi come erede della tradizione Kieviana: siamo circa cent'anni prima del fatidico proclama del 16. Gennaio di Ivan IV, ma il solco è già segnato.
San Basilio, così originale – così “unica” nella sua particolare pianta, e nello sviluppo organico, segue questa linea. E non è un caso, essendo il suo committente nientemeno che lo stesso Ivan IV. E' eretta su una pianta ottagonale, il che vuole riprendere il numero mistico per eccellenza della tradizione bizantina ed alto-medievale. E' altissima – per gli standard medievali russi: a titolo di confronto, la chiesa di Kolomenskoe (1530), oltre ad essere molto più bassa di San Basilio, riesce ad acquisire uno sviluppo verticale solo sacrificando quasi tutto lo spazio interno a poderose mura di sostegno.
Detto ciò, come segnale di autorità e potenza, San Basilio sarebbe già un segnale più che sufficiente – ma Ivan fece di più. Le torri di San Basilio non hanno una decorazione a forma di turbante per caso, o per vezzo degli architetti: esse vogliono celebrare la vittoriosa campagna di Ivan IV che, nel 1552 conquistava Kazan' e quattro anni dopo Astrakhan, chiudendo definitivamente l'era iniziava dalla disastrosa battaglia del fiume Kalka del 1238. Per questo essa è fuori dal Cremlino. Essa vuole dimostrare che gli Slavi dell'Est non temono più alcun nemico: non ci sarà più bisogno delle sua mura per proteggere i “provoslavoi” (gli ortodossi) dai musulmani.

San Basilio è quindi uno strumento politico, prima ancora che un'opera d'arte. E vale la pena di non dimenticarlo, soprattutto oggi. E' l'inaugurazione di Mosca come capitale di un impero - Impero che ha inizialmente costruito la sua identità nell'opposizione all'Oriente islamico ed all'occidente Cattolico, nel rifiuto di entrambe le identità (Europea e Asiatica) e nella ricerca difficoltosa di una terza via. E' il superamento della Prima Roma, ma anche della Seconda Roma - Costantinopoli, della cui meraviglia per antonomasia (Santa Sofia) essa non riprende volutamente né pianta né struttura. E' quindi l'incarnazione materiale del discorso di incoronazione di Ivan IV: come scrivevo in un altro post, proclamarsi Zar non significa per il Riurikide dichiararsi sulla scia di Cesare, Augusto e Costantino (come nel caso di Carlo Magno, ad esempio... altro celebre ed autoproclamato Cesare), ma aprirne una nuova, che Ivan aveva intravisto e non riuscirà a portare a termine. Forse non è un caso che Pietro il Grande, altro monarca che tentò una modernizzazione del Paese, non provasse grande simpatia per San Basilio, e che preferisse erigere la sua capitale sul Baltico, ben lontana dall'ingombrante ombra della meraviglia di Ivan... non era quella la Russia sognata dal gigante Romanov. La Sua Russia non avrebbe cercato questa terza identità, ma avrebbe sacrificato tutto per agganciarsi al treno Europeo, con conseguenze di cui non potremo non parlare in altra occasione....

lunedì 11 luglio 2011

Da Kiev a Mosca: non soltanto una translatio imperii

Kiev è la culla della Russia storica: le byline, poemi e poemetti incentrati sugli eroi del mitico passato russo, quasi invariabilmente gravitano attorno all'attuale capitale dell'Ucraina. Anche dopo la sua distruzione più o meno totale ad opera dei Tatari nel 1240, Kiev rimase il cuore pulsante dell'identità culturale russa – fino ad una data molto precisa. Ovverosia, l'8. Settembre del 1380 quando Dmitri Ivanovich della casata dei Riurikidi, principe di Mosca, sconfigge gli stessi Tatari nella leggendaria battaglia di Kulikovo (Куликовская битва).

Nei 140 anni intercorsi fra i due eventi, il baricentro politico e culturale dell'antica Russia si era spostato ben più dei 750 km che separano le due città. In un certo senso, l'ascesa di Mosca segna la nascita di una nuova Russia, che è poi quella moderna, a noi meglio nota.

La Russia di Kiev (o per meglio dire: la Rus' di Kiev) era un agglomerato piuttosto lasso di principati retti da un'élite politica di origine scandinava, privo di qualsiasi elemento coesivo che ci porterebbe a parlare di “stato” in senso moderno. I principe (knjaz) e i suoi sottoposti (la druzhina) si limitavano ad un più o meno elementare sfruttamento del territorio, che sostanzialmente continuava a vivere un'esistenza propria, più o meno indipendente da ciò che nella sede del principato andava verificandosi. Non esisteva nemmeno una tassazione coerente, finalizzata alla gestione dello stato e dei suoi bisogni: essa era sostituita dal diritto di razzia (kormlienilie, кoрмлениле) che lo knjaz attribuiva di volta in volta a questo od a quel membro della druzhina, e dal tributo annuo che le città direttamente od indirettamente sottoposte a Kiev, organizzate che fossero in principati o dipendenze (uyezd), erano tenute a pagare alla capitale. I vari principati erano fra di loro collegati una rete labilissima sostenuta dai legami di sangue e di famiglia, veri o presunti che fossero, con un grado di autonomia dipendente da fattori difficilmente standardizzabili: intraprendenza dello knjaz locale, ricchezza dell'entroterra e/o dei commerci passanti per il posad (= sobborgo mercantile) passavano...

Con l'invasione tataro-mongola, tutto è destinato a cambiare. Tanto per cominciare, la linea commerciale “dai Variaghi ai Greci”, che vedeva in Kiev una tappa intermedia più o meno forzata sulla rotta per Costantinopoli, si esaurisce a partire dal 1204. Con la caduta dei Comneni, Costantinopoli smette infatti di essere il principale hub commerciale del Mediterraneo cristiano – primato che si trasferisce in Occidente, spartito fra Venezia, Genova ed i porti Aragonesi.
Secondariamente, l'invasione Tatara colpisce duramente l'area corrispondente all'odierna ucraina, ma risparmia le zone nord-orientali dove la stella del principato di Vladimir-Suzdal' inizia a brillare sempre più forte. Il principato di Vladimir rappresenta una realtà anomala nel contesto dell'antica Rus': il vero e proprio fondatore del principato, Yuri Dolgoruki (= braccio lungo, 1099 - 1157), figlio cadetto di Vladimir Monomakh (1053 - 1125), si distacca inizialmente dalle vicende dinastiche di Kiev (en passant, ricordiamo che proprio il tardivo coinvolgimento sarà causa della sua morte), instaurando un dominio locale fortemente centralizzato, con una linea dinastica più chiara e lineare. L'approccio di Vladimir diventerà ancor più specifico nella figura del figlio e successore di Yuri, Andrei Bogolyubsky (1111 - 1174): oltre a sperimentare una linea patrilineare diretta che già rappresenta una novità per il mondo russo, Andrei si disinteressa quasi completamente delle vicende kieviane, preferendo rafforzare il suo dominio su Vladimir.
Vladimir è inizialmente lontana dalle più floride rotte commerciali: quello che nasce è quindi un principato basato sul capillare sfruttamento dei contadini, in cui i mercanti – vitali nell'ecosistema kieviano, giocano un ruolo secondario. Mancando i proventi determinati dallo sfruttamento dei commerci e dei relativi balzelli di passaggio, Yuri Dolgoruki (che non era chiamato “mano lunga” solo per il suo tardivo ma forte coinvolgimento nelle remote vicende di Kiev... ma anche per l'abitudine di mettere la mano nel borsello dei sudditi) e Andrei istituiscono un sistema di tassazione sempre più opprimente. Così, quando i Tatari arrivano e distruggono lo stato kieviano, non solo si limitano a lambire la propaggine più “innovativa” di quest'ultimo, ma paradossalmente lo rafforzano, incrementandone il peso specifico fra i principati superstiti. Ruolo che lo stesso Khan riconosce nominando il principe di Vladimir vielikij knjaz (= gran principe), titolo che prima spettava al signore di Kiev ed a lui soltanto. Nomina tutt'altro che disinteressata: compito del vielikij knjaz è soprattutto raccogliere i balzelli che poi andranno a rifornire le tasche dei tatari. In un contesto come quello russo del XIII secolo, l'esperienza di Vladimir nella raccolta e nella gestione della tassazione rappresentava una garanzia.
Mosca, fondata dallo stesso Yuri nel 1147, entra in gioco in questo momento. Essa fa parte del cosiddetto “anello d'oro”, Золото́е кольцо́, una serie di insediamenti che Yuri aveva disposto attorno alla sua capitale per proteggerla da eventuali invasioni. Costruita sulle rive del fiume Moscova, Mosca ha una posizione invidiabile: grazie ad un mix di reti fluviali e vie carovaniere, essa si trova ad essere la più orientale propaggine del sistema fluviale diretto al mar Nero, e la più occidentale di quello che, costruito sul Volga, porta verso il mar Caspio ed i khanati dell'Asia Centrale. Nel contesto rappresentato dalla pax mongolica e tataro mongola, si trova nella situazione ideale per sfruttare una nuova via commerciale. Potendo beneficiare, al tempo stesso, dello sfruttamento del latifondo alla base del sistema di potere di Yuri.
Nel 1303, Daniele, figlio cadetto del leggendario Alexander Nevsky, diventa principe di Mosca e distacca completamente il principato dal sistema di potere di Vladimir: negli anni seguenti, il suo discendente Ivan si impossessa di Vladimir. Nel 1327, il penultimo passo: complice la crescente influenza cattolica in area ucraina, determinata dall'inarrestabile espansione polacco-lituana, il metropolita di Kiev si trasferisce a Mosca dopo una sosta (30 anni circa) a Vladimir.
All'alba del 1380, Dmitri ha quindi forza economica, morale e politica per sfidare apertamente i Tatari. La vittoriosa battaglia di Kulikovo darà ai principi di Mosca, eredi di sangue del leggendario Alexander Nevsky (altro fattore senz'altro a loro favore), il risalto necessario per essere riconosciuti da tutti i Russi come l'unica speranza di riconquistare quell'identità culturale e politica cui Ivan IV si appellerà nel celebre discorso di incoronazione del 16. Gennaio 1547, proclamandosi “Zar di tutte le Russie”. Quindi non solo Vielikij Knjaz (titolo in qualche modo infangato dalla dipendenza dai Tatari), né soltanto Zar (= imperatore) dei Russi di Moscovia - come il padre Ivan III. Ma di tutti i Russi, anche di quelli sottoposti al maltollerato giogo polacco. In un certo senso, Ivan chiude quindi un ciclo di rinascita iniziato con la distruzione di Kiev – ma la sua Russia nulla ha a che fare con quella delle antiche byline. Stato centralizzato, rapace (e sotto di lui, semplicemente rapacissimo), fortemente militarizzato, dai forti connotati agricoli, retto da un governo autocratico quello concepito e sviluppato da Ivan, soprattutto nelle allucinate missive con Kurbsky. Ovverosia, l'immagine speculare del labile, impalpabile, “stato minimo” (se mai di stato potremo parlare...) che i Russi avevano ormai mitizzato nei racconti di Sviatogor e di Michail Potok.

mercoledì 29 giugno 2011

Le Rose di Ulisse: mia lettura inaugurale al congresso SIDILV - Parma 2009

La storia del continente europeo rappresenta un puzzle che le convenzionali metodiche di indagine archeologica e storica sono difficilmente in grado di risolvere. I primi documenti storici accessibili in nostro possesso risalgono infatti al XIV – XII secolo a.C. : si tratta dei testi palaziali micenei in lineare B, intellegibili in quanto – pur composti in un complesso alfabeto sillabico, decifrato nel corso del XX secolo dall’inglese Michael Ventris, sono espressione della più antica variante del greco antico. Si tratta, tuttavia, di testi molto “poveri”, quantomeno secondo il punto di vista del lettore contemporaneo: comprendono quasi esclusivamente registri annonari, ovvero documentazione amministrativa, in cui solo eccezionalmente compaiono accenni alla realtà storica contemporanea – che, comunque, non va oltre alle specifiche esigenze del palazzo e del suo contado.
Al di là dell’indiscutibile valore storico e documentario, cercare di ricostruire le più antiche vicende europee – o quantomeno dell’area geografica dell’Egeo, tramite questa documentazione è come tentare di immaginare la travagliata storia del XX secolo tramite un registro contabile. Relativamente maggior fortuna si ha non appena varcato l’Egeo: gli archivi di Hattusas, capitale del coevo impero ittita, contengono infatti un certo numero di testi letterari e storici. Ad esempio, la loro scoperta e decifrazione ha permesso di scoprire come il leggendario Ramesses II avesse clamorosamente “gonfiato” tramite una propaganda pubblicitaria degna dei nostri tempi gli esiti assai più controversi della battaglia di Qadesh che, combattuta nel XII secolo a.C. fra forze ittite ed egiziane per il controllo della Siria, fu dal grande faraone spacciata come una clamorosa vittoria sul nemico asiatico. O come Esiodo, uno dei più grandi poeti dell’arcaismo greco, avesse risentito, nella composizione delle sue opere pervenuteci (“Le Opere e i Giorni” e la “Teogonia”) dell’impronta culturale ittita, sopravvissuta al crollo dell’impero nel corso del XII secolo a.C.
Per chi si interessi della storia europea, in ogni caso, l’utilità di tale documentazione è comunque solo parziale. Nonostante una certa storiografia abbia interpretato l’impero ittita come prima espressione di una potenza “europea”, per collocazione geografica (la penisola anatolica) e per interessi politici e commerciali, esso appartiene indiscutibilmente all’area medio-orientale, da cui – all’atto pratico, si distingue quasi esclusivamente per ragioni etnico-linguistiche. Gli Ittiti sono infatti la prima popolazione indoeuropea (o supposta tale) a comparire nelle vicende storiche mediorientali sotto forma di uno stato centralizzato e ben organizzato: la prima storiografia del ‘900 (soprattutto di area tedesca), spinta da una propaganda di stato volta ad identificare affinità culturali fra mondo ittita e mondo germanico, funzionale al crescere degli interessi tedeschi in area mediorientale, esaltò la cultura ittita come primordio della cultura europea, ravvisando in essa aspetti che in realtà non esistevano.
A testimoniare il fatto che le attenzioni ittite fossero rivolte ad oriente piuttosto che all’occidente (prefigurando la secolare ambiguità di tutte le entità statuali che andranno ad occupare l’area anatolica), nonostante la grande fioritura micenea e quella ittita siano grossomodo contemporaee, la documentazione
di Hattusas riserva accenni del tutto sporadici al mondo egeo ed all’Europa in generale. Affascinante, certo, che in questi archivi si parli di una città occidentale chiamata Wilusa (“pericolosamente” affine al termine Ilio, altro nome di Troia) in guerra con certi Ahhiyawa (Achei?) in documentazioni in cui nomi assai famigliari quali Paride, Alessandro, Achille e così via emergono improvvisi e del tutto inattesi.
Detto ciò, risalire tramite documenti storici al periodo ancora più antico, e sicuramente decisivo nella formazione dell’identità europea – a quelle prime fasi di “storia” europea indissolubilmente intrecciate con la fine della “preistoria” è praticamente impossibile.
Su questa mancanza di documentazione scritta, e sulla carenza dei dati archeologici, la storiografia del primo ‘900 ha ampiamente ricamato: in analogia al citato esempio degli Ittiti come leggendari precursori dell’Impero Germanico, le potenze coloniali europee hanno variamente fatto proprie le diverse civiltà portate alla luce dalla nascente ricerca archeologica, gareggiando nel riconoscere in esse più o meno diretti precursori della propria identità culturale. Basandosi sulla narrazione di Tucidide relativa alla più antica storia greca e su Erodoto, Evans – lo scopritore di Cnossos e del cosiddetto “Palazzo di Re Minosse”, immaginò ad esempio la civiltà minoica come un Impero dei Mari (Talassocrazia) assai più simile all’Impero Britannico di sua Maestà Britannica la Regina Vittoria che al mondo minoico quale noi oggi effettivamente abbiamo imparato a conoscere.
Il passo che separa queste fantasiose ricostruzioni storiche (comunque ancora dotate di una base documentale) alle affermazioni pseudostoriche del nazionalsocialismo (che vedeva nel Volk tedesco l’ultima e più pura espressione di una primitiva civiltà eurasiatica, esistente piuttosto nei racconti di fantascienza che nella realtà storica), è pericolosamente breve.
Non immaginando le drammatiche conseguenze che tale approccio avrebbe prodotto di lì ad alcuni decenni, la storiografia del tardo ‘800 immaginò che l’Europa preistorica fosse stata la culla di una remota cultura megalitica (di cui per altro ancora si trova purtroppo traccia nei moderni libri di storia delle scuole medie e superiori) che, in perfetta analogia alle potenze coloniali europee del tempo, si sarebbe quindi diffusa a tutto il continente eurasiatico “portando civiltà” (per usare le formulazioni care agli scrittori del tempo) ed acquisendo da una regione all’altra caratteristiche specifiche. In altre parole, i dolmen ed i menhir propri dell’area nordica, rappresenterebbero l’improvvisa ed ancora primitiva fioritura di una stessa medesima civiltà che quindi avrebbe partorito il cerchio di pietra di Stonehenge, le grandi fortezze micenee, e persino le Piramidi di Giza! I responsabili di questa fiuritura? Le popolazioni che abbiamo già definito come indoeuropee.
Il gruppo indoeuropeo comprende un vasto spettro di lingue diffusesi nel continente Europeo ed Asiatico in un periodo compreso fra il 2500 a.C. ed il 1200 a.C. Se parlare di lingue indoeuropee (fatte salve alcune critiche isolate) è un fatto assolutamente accettato dalla larga maggioranza dei ricercatori, ammettere che ad una lingua indoeuropea si sia associata una cultura, e soprattutto popoli chiaramente definibili come
indoeuropei rappresenta comprensibilmente una tematica tuttora assai spinosa. La scoperta dell’indoeuropeo, inteso come gruppo linguistico da cui molte lingue moderne sarebbero in ultima analisi discese, risale infatti all’epoca romantica (Franz Bopp), in cui l’assioma lingua = popolo era considerato pressoché inattaccabile e la riscoperta dei valori originari del proprio popolo un dovere quasi ineluttabile della ricerca culturale. E quale antichità più remota – e quindi più “nobile” di quella delle più precoci origini? Origini che, per altro, stando alla ricostruzione di Bopp (che per altro noi stessi moderni accettiamo) vedrebbero una sola lingua comune all’origine del Latino, del Greco, di tutte le lingue germaniche, del Persiano, e persino dell’antichissima lingua delle più grandi civiltà indiane – il Sanscrito.
Da qui l’identificazione fra gli indoeuropei ed i cosiddetti popoli megalitici. Identificazione che solo fatti relativamente recenti hanno rimosso: prima di tutto, l’applicazione delle metodiche di datazione (ad esempio, la datazione al radiocarbonio) che permesso di scoprire che le opere attribuite ai “megalitici” fossero in realtà del tutto eterogee dal punto di vista cronologico – comprendendo costruzioni risalenti ad un passato effettivamente remotissimo (fino a 6,000 anni prima di Cristo), ma anche molto più recenti (epoca romana), non essendo quindi omolagabili in quando espressione di una sola civiltà. Secondariamente, proprio la datazione al radiocarbonio (primo apporto della moderna ricerca scientifica a discipline storicamente “letterarie” quali l’archeologia e la storiografia) ha permesso di scoprire che la popolazione dell’Europa da parte delle civiltà responsabili delle opere “megalitiche” sarebbe avvenuta per una serie di ondate diverse, accomunate da un solo carattere: provenire dall’oriente, e di cui l’ondata migratoria indoeuropea sarebbe stata solo l’ultima, in ordine cronologico.
Certamente l’Europa è caratterizzata da siti archeologici molto antichi: sulle rive del Danubio, fra il 7,000 ed il 4,800 a.C. fiorì l’insediamento preistorico di Lepenski Vir, già caratterizzata da un notevole sviluppo culturale (testimoniato dal culto dei morti, espressione di viva attività religiosa), tecnico (come sottolineato dalla strumentazione agricola e progettata per la pesca), sociale (i reperti storici suggeriscono che l’insediamento fosse caratterizzato da un minuto sviluppo sociale) e persino artistico. Considerando l’area anatolica come ultima propaggine orientale dell’Europa, proprio in quest’area si trova la più antica città conosciuta al mondo – il cosiddetto insediamento di ␣atalhöyük, che all’apice della propria fioritura (fra 6,000 e 8,000) fu popolata da quasi 10,000 persone risiedenti in una intricata struttura residenziale in muratura a forma di alveare, arricchita da rappresentazioni pittoriche ed aree cultuali con caratteri di veri e propri templi. Persino nelle estreme propaggini del nord Europa – nelle isole Orcadi, è possibile trovare insediamenti di sorprendente complessità, come quello di Skara Brae, popolato dal 3,100 al 2,500 a.C.
In ogni caso, come emergente da questo rapido excursus e dalla verifica delle date proposte (dal IX millennio di ␣atalhöyük si passa al IV millennio di Skara Brae) se di diffusione culturale si può parlare attraverso il territorio europeo nel corso della preistoria del continente, questa avvenne sempre, ed invariabilmente, con una sola direzione: da Oriente (cioè dall’Asia e dall’Africa) verso Occidente. Mai il contrario ipotizzato dagli storici inglesi e tedeschi del tardo 1800/primo 1900. Persino la migrazione indoeuropea ebbe origine dall’Asia, e non dall’Europa – che invece fu, al pari dell’India, il sito terminale di una parte di questo evento.
Ciò detto, possiamo ribadire che le modalità di colonizzazione dell’Europa, e soprattutto le vicende che determinarono la conformazione etnografica del continente rimangono confuse, difficilmente districabili dalle più comuni metodiche di indagine archeologica e storiografica prese per se– ovvero, la ricerca sul
campo e l’indagine di documentazione, primaria (i.e. documenti coevi del periodo oggetto dell’indagine) o secondaria (e.g. rapporti di storici antichi), di cui l’applicazione delle citate tecniche di datazione rappresenta solo la più moderna estensione.
La ricerca sul campo è infatti compromessa dalla forte antropizzazione del continente europeo e dalla sua peculiare storia di civiltà urbane: quasi tutti i siti preistorici si sono infatti trasformati in insediamenti di varia natura (etruschi, celtici, germanici, e così via), quindi convertite in città romane che, in qualche modo sopravvissute alle alterne vicende del medioevo, sono quindi le nostre città moderne. Per restare alla sola Emilia Romagna: la moderna Bologna è il risultato della trasformazione degli insediamenti villanoviani nell’etrusca Felsinea, quindi conquistata dai Celti e da questi ridisegnata a proprio uso e consumo fino alla conquista romana ed alla nascita di Bonomia, precursore della Bologna medievale (basta passeggiare per il centro storico per scoprire, innestate ed integrate nei palazzi due-trecenteschi colonne di chiara origine romana) e quindi della città rinascimentale, e così via, fino ai giorni nostri. Indagare (ovvero: scavare) in questo contesto è chiaramente difficile, se non impossibile: non è un caso che alcune delle più sorprendenti scoperte archeologiche recenti siano state casuali, e legate ai lavori per opere urbane di tutt’altra destinazione (emblematico il ritrovamento degli archivi micenei di Tebe durante gli scavi per la circonvallazione cittadina). Per quanto riguarda l’aspetto documentario, la risposta è ancora più semplice ed in qualche modo deprimente: la documentazione che a noi interesserebbe avere non esiste. Come detto, l’Europa iniziò a “scrivere” (e soprattutto: a scrivere di ciò che noi potremmo chiamare storia, o comunque impiegare per ricostruire la storia) solo in tempi sorprendentemente recenti. Ovverosia, non prima del VI secolo a.C., ed anche in questo caso gli acconti storici presentano ampi varchi. Chi dell’Europa poteva scrivere (riprendiamo l’esempio degli Ittiti) semplicemente non aveva motivo per farlo.
Per meglio capire cosa si intenda, basterà una banale riflessione terminologica. Premesso che il termine Europa sia di etimologia tutt’altro che certa, l’interpretazione più moderna lo vede come derivato di una radice semitica (per l’esattezza, accadica): “erebu”, ovvero “tramonto / terra del tramonto” (i.e. “occidente”) da cui il termine omerico “Erebo”. Nel mondo di Omero, l’Erebo (che geograficamente corrisponderebbe al moderno Portogallo) è la terra dei morti. Un luogo in cui i vivi non possono accedere se non in particolarissime condizioni. Avvicinandoci alla nostra specifica realtà, ricordiamo come il più antico nome di Italia (che a sua volta deriverebbe dall’osco Viteliù, ovvero “terra dei vitelli”) sarebbe Esperia (“terra della sera”) – ugualmente associato ad un mondo fantastico. In altre parole: l’Occidente rappresentò a lungo e fino a tempi relativamente prossimi un vero e proprio enigma. Una frontiera nella quale confinare mostri (da Gerione a Scilla e Cariddi) o l’accesso al mondo sotterraneo, ovvero popolata da genti primitivi che, per usare i termini omerici, non sanno distinguere un remo da falce, o sottoposte a misteriose ed incomprensibili divinità – i cosiddetti Iperborei (coloro che vivono sopra il soffiare di Borea, uno dei 4 venti antichi).
Per cercare di superare la barriera rappresentata dalla carenza di fonti storiche dirette, la moderna ricerca può tuttavia avvalersi di strumenti di pari validità scientifica, quali l’indagine linguistica e mitografica e, aspetto subentrato solo nel corso degli ultimi 20 anni, le più avanzate pratiche laboratoristiche – fra le quali, la ricerca genetica.
L’uso dei miti antichi come fonte informativa è in realtà una procedura molto antica: anticamente – quantomeno, fino agli albori della civiltà giudaico cristiana, e quindi per larghi tratti del medioevo, eventi propri del mito erano considerati come storici. Nessun ateniese di età classica avrebbe mai dubitato della realtà storica dei personaggi omerici: non lo fa Tucidide,
ad esempio, che nel “prologo” alla Guerra del Peloponneso parte proprio da fatti narrati nell’Iliade e nell’Odissea e critica l’operato di Menelao ed Agamennone come avrebbe fatto con un generale del suo tempo. Ovviamente, il nostro approccio ai racconti mitici e leggendari non è più quello di una diretta ed acritica accettazione: complice la moderna scuola interpretativa, incarnata ad esempio da Dumezil ed Eliade, l’attenzione della ricerca è ora rivolto – più ancora che al mito in se, al confronto, ovverosia alla comparazione con altri repertori mitici, ed all’analisi della sua forma. Scopo di questo confronto è di riconoscere affinità, strutturali o tematiche, e/o le eventuali divergenze. Questi dati, interlacciati con le informazioni provenienti dalle più convenzionali metodiche di indagine, permettono di ricostruire un’immagine più complessa ed articolata – non priva, tuttavia, di numerosi e critici caveat.
Un esempio piuttosto semplice delle conseguenze di questa modalità di approccio alla tematica storica ci viene offerto dall’analisi del mito della creazione greco, narrato da Esiodo. Esso ci narra di tre generazioni divine, in cui da entità confuse e dai caratteri del tutto animistici (Urano, il cielo e Gea, la madre terra) si passa quindi a divinità sempre più antropomorfe (Crono e Rea), fino a diventare in un certo senso “più umane degli stessi uomini” (Zeus e Hera), in cui il passaggio da una generazione all’altra è segnata da conflitti e faide del tutto simili a quelle che un antico greco poteva riconoscere fra le grandi famiglie nobiliari del suo tempo. Sulla base della successione di tre generazioni divine, è stato ipotizzato che anche la Grecia antica avesse conosciuto tre colonizzazioni successive: un modello apparentemente appropriato in cui, da divinità molto primitive legate a fenomeni atmosferici (la prima generazione divina), attribuite alla primitiva popolazione ellenica – i cosiddetti pelasgi, termine già impiegato da Tucidide e Plutarco, si sarebbe passati al panteon classico a seguito delle progressive invasioni di popoli (e quindi di cultura: e quindi di dèi) indoeuropei sempre meglio delineati. Zeus, inteso come Dio del Fulmine e leader della compagine divina è infatti una “vecchia conoscenza” per chi si dedica alla mitologia comparata, e del resto già gli antichi (da Erodoto a Tucidide, passando per Cesare e Tacito) procedevano ad una pressoché automatica identificazione di tale divinità con i vari Odino/Wotan (il dio supremo germanico), Indra (il dio delle tempeste indiano), e così via. In realtà, la realtà archeologica ha dimostrato inequivocabilmente che gli dèi venerati in epoca micenea, quindi prima dell’ultima grande migrazione in area ellenica (quella dei Dori), già fossero quelli a noi meglio noti tramite i racconti omerici ed esiodei, demolendo quindi questa parte dell’ipotesi iniziale.
D’altra parte, l’avanzamento della ricerca linguistica e proprio la comparazione mitologica hanno suggerito che le suddette generazioni divine siano associate ad una dinamica culturale assai più complessa. La deificazione di Cielo e Terra è un fenomeno diffuso in culture molto diverse, e del tutto prive di contatti e relazione: la loro presenza nel mito delle generazioni divine è probabilmente spia, piuttosto che di uno strato culturale pre-esistente l’arrivo dei greci storici nell’area ellenica, di uno strato culturale preistorico di questi ultimi. E’ invece il secondo strato, quello della generazione di Crono e Rea, a rappresentare un possibile lascito delle popolazioni pre-elleniche e della loro cultura. Prima di tutto, la funzione narrativa esercitata da Crono non è reperibile in analoghi miti della creazione, o comunque non con le caratteristiche proprie del mito greco. La ricerca linguistica ha dimostrato che il nome Crono sia di origine pre- ellenica, derivando da un radicale comune al termine “falce”, ed in particolare “falce di luna”. Crono, che nella tradizione romana viene identificata con la divinità delle messi (Saturno) sarebbe dunque un’antica divinità implicata sia con i raccolti che con i cicli stagionali, esattamente come la divinità latina (per di più corradicalica) Cerere. Poiché i reperti archeologici ed un controverso passo di Erodoto suggeriscono che il culto
delle popolazioni greche più antiche fosse associato a divinità del mondo sotterraneo e dei raccolti (Crono è anche custode del Tartaro, il mondo sotterraneo, prima che il figlio Hades lo rimpiazzi alla fine dell’ultima ribellione divina), è quindi Crono la divinità più propriamente indicata. Esiste inoltre buona evidenza che divinità mediterranee del raccolto e delle messi (come il semitico El) siano strettamente correlate a tale figura.
È a questo punto che entra in gioco la moderna ricerca laboratoristica, ed in particolare l’indagine genetica. Se alla comparsa di una determinata cultura (e quindi di una determinata lingua, dei miti fondatori, di una religione, e così via) si associa infatti il movimento fisico di esseri umani, questo si associa alla comparsa od alla scomparsa del relativo patrimonio genetico.
La ricerca scientifica ha sfruttato varie possibili modalità di indagine genetica rispetto alle popolazioni umane. Le più classiche strategie hanno riguardato la determinazione delle frequenza dei gruppi sanguigni umani, così come del fenotipo Rh-. L’epocale ricerca di Cavalli Sforza ha, per esempio, sottolineato come particolari popolazioni europee siano caratterizzate una prevalenza estremamente elevata del suddetto fenotipo. Poiché questo appare più frequente in area mediterranea, ed in regioni storicamente caratterizzate da culture sostanzialmente slegate dalla “koiné mediterranea” tanto cara alla cultura classica – come l’area pirenaica ed i paesi baschi, l’area anatolica e, in misura minore, la Toscana, esso è stato considerato un classico marcatore dei popoli europei più antichi. In realtà, i gruppi sanguigni rappresentano solo una, e forse la più rozza, delle strategie di indagine applicabili e che possono riguardare la ricerca di specifiche mutazioni di determinati geni, la cui particolare prevalenza in una data popolazione può essere considerata conseguenza del più classico effetto fondatore. Un esempio molto noto è quello di HFE, il gene implicato in una specifica variante dell’emocromatosi idiopatica: la mutazione, originata in epoca storica in area scandinava, ha quindi seguito le migrazioni del clan ancestrale, diffondendosi nell’Inghilterra Orientale ed in Scozia, in Francia settentrionale, ed in alcune zone dell’Italia meridionale. Un altro esempio è quello della cosiddetto sickle cell disease (anemia a cellule falciformi): una mutazione di singolo nucleotide determina in tale patologia la formazione di emazie deformi (da cui il nome), che però in condizione di eterozigosi garantiscono un vantaggio selettivo nei confronti dell’infestazione da P falciparum, l’agente eziologico della malaria. Per quanto essa sia comparsa in varie popolazioni, in tempi ed in modi diversi, nell’area mediterranea essa raggiunge i massimi livelli di prevalenza in aree oggetto della colonizzazione fenicia a partire dal XII secolo a.C. - quindi Africa settentrionale, Italia meridionale ed insulare. Anche mutazioni assai più frequenti a livello di popolazione si sono rivelate marcatori di antichi eventi migratori: è il caso della celebre mutazione DF508 del gene dei canali del sodio, riscontrato in corso di fibrosi cistica. Il gene mutato è presente in condizione di eterozigosi con prevalenza media di 1/50 nella popolazione europea (da cui la prevalenza di 1/2500), di cui è del tutto esclusivo. In altre parole, il gene della fibrosi cistica può essere considerato un marcatore delle migrazioni dei più antichi popoli europei, ed in particolare proprio della migrazione indoeuropea.
Tornando all’esempio dell’antico mondo ellenico, ricerche condotte sul fenotipo HLA hanno rilevato come la moderna popolazione greca sia il risultato della progressiva stratificazione di pool genetici: in molti casi, essi sono stati agevolmente identificati in base ai dati storici (è il caso di geni associati a popolazioni turche), ma un’ampia base genetica, comune con popolazioni dell’area mediterranea, può essere spiegata come lascito delle più remote popolazioni agricole dell’area ellenica, sulle quali le successive migrazioni indoeuropee sarebbero andate a sovrapporsi.
Questa vicenda di sovrapposizioni, suggerita dai reperti archeologici è dunque confermata dalla ricerca genetica, che tuttavia non è in grado di determinare con certezza il periodo storico in cui l’evento avrebbe avuto luogo – il che rende dunque essenziale il costante incrocio delle diverse fonti informative. Sebbene sia stato osservato che tali frequenze geniche proprie dell’area ellenica potrebbero trovare una spiegazione in eventi storici medievali (le invasioni araba, slava, avara e turca), è pur vero che la ricerca linguistica ha chiaramente dimostrato che in quasi la metà del vocabolario di base del greco antico non sia effettivamente ricostruibile una radice indoeuropea. Questo può essere solo parzialmente spiegato nell’ambito di potenziali prestiti linguistici, in particolare con l’area del vicino oriente. Ancora una volta, l’archeologia ci dice che, quantomeno fino alla nascita delle grandi potenze imperiali assira e persiana, la Grecia continentale guardasse più ad oriente che ad occidente – e con gli scambi culturali arrivano stilemi artistici, e soprattutto terminologie e nuove parole che vanno ad arricchire il vocabolario di un popolo, affiancandosi o sostituendo termini preesistenti.
La ricerca linguistica, condotta sui più antichi testi greci a nostra disposizione, dimostra che buona parte di queste parole siano state importate nel vocabolario comune del mondo greco assai prima che questi scambi si installassero in modo stabile. Da rilevare che questo vocabolario presenta particolarità specifiche a livello di significato e di significante (ovvero di aspetto fonetico): quasi tutti i nomi della flora e della fauna propria dell’area mediterranea presentano fatti e fenomeni linguistici che possono essere spiegati solo come esito di importazione da un sostrato linguistico preesistente, con caratteristiche fonetiche, per altro, del tutto diverse dal mondo semitico ed anatolico. Un sostrato, per di più, comune a buona parte delle culture di derivazione più o meno diretta dal mondo indoeuropeo ed installatesi nell’area mediterranea. L’esempio più celebre è rappresentato dal termine “rodon”, “rosa” in latino in cui si rileva una particolare alternanza consonantica fra s/d, analoga a quella riscontrabile nel nome dell’eroe omerico meno “indoeuropeo” che si possa immaginare – Ulisse (Odusseus/Ulixes) o nel termine per “lacrima” (dacruma/lacruma). Una regola molto semplice della linguistica, teorizzata da DeSaussurre nel corso del secolo scorso, è che suoni “instabili” (l’instabilità è determinata dalla necessità di articolare in modo particolarmente complesso l’azione degli organi fonatori) evolvano per semplificazione verso suoni più “stabili” (e quindi più semplici da articolare). In altre parole, per giustificare questa particolare alternanza fonetica, è stato ipotizzato che quel pool terminologico deriverebbe da una o più lingue (oggi perdute) caratterizzate da suoni complessi, estranei alla fonetica indoeuropea, ed acquisiti dalle lingue indoeuropee a prezzo di semplificazione dei suoni complessi, con modalità diverse da una lingua all’altra.
A questo strato remotissimo è stato dato il nome di “mediterraneo” o “pelasgico” (sempre dal nome delle più antiche popolazioni che, stando agli antichi greci, avrebbero popolato l’area mediterranea). Chi fossero queste popolazioni è tutt’altro che chiaro. Ancora una volta, l’indagine genetica suggerisce che si tratterebbe di popoli emigrati dal continente africano – o forse dall’area asiatica, al termine dell’ultima glaciazione e che avrebbero uniformemente popolato l’area europea fino all’arrivo delle popolazioni indoeuropee. Questa ricostruzione viene confermata dall’indagine sui geni del grano e dei principali cereali coltivati in area europea, sia in epoca storica, che contemporanea, che rinvenuti in reperti archeologici. Ancora una volta, la ricerca genetica conferma le ipotesi archeologiche e ribadisce come il flusso informativo – e probabilmente etnico, sia sempre stato verso l’Europa, piuttosto che dall’Europa, proveniente dall’Africa settentrionale e dall’Asia occidentale.
Secondo l’interpretazione classica, i popoli indoeuropei avrebbero esercitato un’inarrestabile forza d’impatto grazie alla
particolare struttura sociale, in cui un sistema di caste (quello indiano di epoca storica sarebbe derivato proprio dall’originaria stratificazione indoeuropea) sosteneva l’esistenza di un classe di guerrieri professionali, cui la disponibilità di armi “hi-tech” (per gli standard preistorici) quali il cavallo, il carro e l’arco da guerra, avrebbero dato un vantaggio sostanzialmente non pareggiabile né dal numero né dalla conoscenza del territorio delle popolazioni stanziali.
La migrazione indoeuropea sarebbe iniziata nel corso del III millennio a.C., originando dall’area del mar Caspio. A suggerire tale areale di origine sono vari fatti, ancora una volta archeologici, mitografici, linguistici e genetici.
Per prima cosa, i dati archeologici dimostrano che a partire dal III millennio a.C. determinate tipologie sepolcrali originarie dell’area suddetta, con presenza di specifiche armi (come appunto l’arco) si diffondono per cerchi concentrici verso oriente e verso occidente. Non va comunque dimenticato che la migrazione della cultura non sia necessariamente associata alla migrazione dei popoli, e che l’adesione ad una cultura non significa necessariamente una sostituzione etnografica (ad esempio: le popolazioni ungheresi sono affini a quelle germaniche e slave, ma parlano una lingua del tutto dissociata da quelle circumvicine; la Persia moderna manifesta una radicale islamizzazione della propria cultura, ma questo non ha significato né l’adozione dell’arabo come lingua né tantomeno la sostituzione dell’etnia persiana) senza contare che non si ha la certezza che questi popoli siano effettivamente identificabili negli indoeuropei.
L’estrema antichità di questa migrazione ha ovviamente impedito la conservazione di reperti storiografici (diversamente dalle migrazioni dei popoli medievali – le invasioni barbariche dei libri di scuola), ma che eventi drammatici abbiano colpito l’Europa preistorica, con un confronto fra popoli nomadi provenienti dall’Asia e popolazioni agricole residenti è suggerito da alcuni reperti archeologici e confermato da una vasta base mitografica.
L’Edda di Snorri (testo redatto nel medioevo, ma contenente accurata descrizione di miti risalenti all’epoca preistorica) ci racconta che gli Asi, divinità provenienti dall’Asia (sic), nelle quali sono facilmente riconoscibili omologi delle divinità olimpiche (ovvero: il panteon di base del mondo indoeuropeo), avrebbero avuto un aspro e sanguinoso conflitto con i primitivi signori del mondo, i Wani (termine corradicalico di Venere), esseri ugualmente divini strettamente associati con la sfera delle fertilità e con i cicli dei campi coltivati e della natura. Non casualmente, i due Wani più importanti sono Freyr e Freya, divinità associate alla sfera sessuale e germinativa (vedasi il latino fruor), ed a tutto l’ambito della magia. Sempre stando al mito nordico, Odino avrebbe acquisito potere dai e sui Wani nel corso della propria ascesa al sommo potere fra gli dèi, probabilmente trasmettendo il ricordo di una prima fase di incontro-scontro con le popolazioni pre-esistenti, e delle prime fasi della fusione dei popoli più antichi e di quelli immigrati (non a caso, la sposa di Odino è Frigg, ugualmente derivante dalla radice di fruor, o addirittura Freya secondo altre versioni).
Cosa abbia determinato l’originaria migrazione indoeuropea è tutt’altro che chiaro. Esiste un resoconto storico di Ammiano Marcellino, quindi di età relativamente recente (IV secolo d.C.), secondo il quale a scatenare le più antiche migrazioni di Celti e Germani sarebbe stata una disastrosa inondazione, il cui ricordo era conservato dalle relative caste sacerdotali.
Poiché il T0 della migrazione indoeuropea corrisponde in modo sorprendente con la forbice temporale per le grandi inondazioni di cui i miti del diluvio mesopotamici (dal diluvio di Utnapishtim a quello biblico) conservano il ricordo, è stato ipotizzato che la
scintilla della migrazione indoeuropea possano essere stati sconvolgimenti climatici nell’area compresa fra Mar Nero, Mar Caspio e Mesopotamia settentrionale.
A confermare ulteriormente questa ricostruzione è nuovamente una fonte letteraria, indipendente dal mito del diluvio, avvalorata da dati genetici.
Nel racconto del Ragnarok, la cosiddetta “apocalisse nordica” (o “crepuscolo degli dèi”), pervenutaci in una redazione islandese del X secolo d.C., viene descritto come le divinità sopravvissute alla “resa dei conti” fra le diverse forze della natura e destinate ad aprire un nuovo ciclo temporale, entreranno in possesso delle “tavole del destino”. Un passo piuttosto enigmatico, giacché i suddetti “oggetti” non sono reperibili in nessun altro mito nordico conosciuto. E che trova l’unica, sorprendente, analogia, con la conclusione dell’Enuma Elish, un testo sumero del IV millennio a.C., in cui una guerra fra diverse generazioni di dei – culminante a sua volta in una vera e propria apocalisse, è proprio incentrata sul possesso delle suddette “tavole del destino”. Analogia ancor più sorprendente quando si pensi che i primi versi dell’Enuna Elish (“quando in alto il cielo non c’era...”) echeggiano in modo assai sospetto i primi versi del mito della creazione norreno (“in principio il cielo non c’era...”), sebbene a separare questi versi sia un vero e proprio abisso geografico, culturale e cronologico (quasi quattromila anni).
Certamente, questi riscontri potrebbero essere solo analogie casuali (il risultato, per così dire, di un’evoluzione parallela), ma come si diceva alcuni dati genetici ci portano ad ipotizzare non soltanto che la migrazione indoeuropea abbia avuto inizio nel 2500 a.C. - e quindi nella fascia cronologica sospetta, ma anche con l’epicentro di cui sopra, nelle aree geografiche di cui sopra, interessando nelle sue aree di origine anche l’area nord- mesopotamica. Pertanto, i reperti citati potrebbero essere un vero e proprio “fossile” letterario, determinato dal particolare ambito di riferimento (quello religioso).
La delezione del recettore per le chemochine CCR5 (CCR5- delta 32) è infatti un carattere genetico ampiamente diffuso nelle popolazioni europee, distribuendosi sui due versanti del mar Caspio con andamento sovrapponibile a quello delle due principali branche delle lingue indoeuropee (gruppo occidentale o centum e gruppo orientale o satem, così detti dalla diversa pronuncia del numero 100, a sua volta determinata dal diverso trattamento fonetico del radicale più primitivo), dei gruppi sanguigni, degli ambiti culturali considerati indoeuropei. La suddetta mutazione offre una certa resistenza costitutiva per i suoi portatori nei confronti di alcune infezioni virali, come HIV, e garantirebbe resistenza anche nei confronti di Y pestis, l’agente eziologico della peste bubbonica. I primi studi sull’argomento avevano ipotizzato che CCR5-delta 32 fosse il risultato di una selezione darwiniana subentrata all’epoca della Peste Nera del 1348.
In realtà, la presenza del gene in aree sostanzialmente trascurate dall’epidemia (e quindi non oggetto della suddetta selezione) e piuttosto caratterizzate da un profondo isolamento geografico sin dall’epoca pre-romana (e.g. le isole della Dalmazia), ovvero in aree del tutto ignorate dall’epidemia del 1348 (l’area caucasica e centrasiatica) ha suggerito che la diffusione di tale carattere genetico sia estremamente più remota. Poiché Y pestis è emerso come patogeno in epoca storica, e poiché la forbice ipotizzata vede il fatidico 2500 a.C. dell’originaria radiazione indoeuropea come perno centrale, è ugualmente possibile che la migrazione sia stata avvantaggiata da una maggiore resistenza delle popolazioni migranti nei confronti di questo specifico patogeno – o di patogeni simili, attualmente ignoti ed ugualmente impieganti il CCR5 come recettore di adesione.
I semplici esempi qui proposti dimostrano che le indagini genetiche siano quindi diventate un essenziale strumento di ricerca storiografica, affiancandosi a metodiche più tradizionali, che vanno ad integrare e completare. Con risultati talora sorprendenti. Un caso molto particolare è rappresentato dal secolare problema dell’origine degli etruschi. I cosiddetti Tirreni, o Rasna (nome che essi stessi si davano, a quanto ne sappiamo), fiorirono nella penisola italica nel corso del I millennio a.C., dando vita ad una civiltà del tutto particolare, che ha esercitato estremo fascino sui popoli del mondo antico, e sui moderni. In ragione della capillare diffusione di stilemi artistici di area orientale piuttosto che greca, scrittori antichi ipotizzarono che i Tirreni fossero il risultato di una migrazione preistorica proveniente dall’Anatolia. Questo, quantomeno, il resoconto storico di Erodoto: stando al celebre storico ateniese, l’élite di alcune popolazioni della Lidia (una regione dell’Anatolia meridionale) sarebbe stata spinta all’emigrazione da anni di gravissima carestia, giungendo infine alle coste dell’Italia e lì installandosi, e quindi fondendosi con le popolazioni italiche originarie.
L’evento sarebbe successo tra il XIV ed il XII secolo a.C. - un periodo anche in questo caso molto sospetto, in quanto corrispondente al tracollo della civiltà minoica ed al tracollo delle strutture statuali egizie del tempo. Non abbiamo ovviamente prove che tali eventi siano simultanei ma, poiché si ha buona evidenza che a provocare almeno la fine della potenza minoica sia stata l’esplosione dell’isola di Santorini, con il conseguente tsunami ad investire le coste di tutto il mediterraneo orientale, ipotizzare che effettivamente aree anatoliche siano state ugualmente investite e duramente colpite non è affatto improbabile.
L’archeologia, da cui la sostanziale ribellione di Sabatino Moscati e Massimo Pallottino a quest’interpretazione degli Etruschi come popolo dell’Oriente, non rivela in realtà una radicale cesura fra le civiltà centro-italiche del tempo (ed in particolare, la cosiddetta “cultura villanoviana”) e le prime fasi della cultura cittadina etrusca. Anche i caratteri fortemente orientalizzanti della società etrusca possono essere interpretati nell’ambito della già citata koiné mediterranea: l’analoga orientalizzazione del mondo ellenico coevo ci sfugge solo a causa della sistematica azione distruttiva esercitata dall’età classica ed ellenistica sulle grandi opere urbane e cittadine del mondo greco delle origini, e che invece traspare immediatamente una volta esaminati i reperti del tempo fino a noi sopravvissuti (spesso proprio tramite i monumenti sepolcrali etruschi).
Anche per quanto riguarda gli aspetti più misteriosi della civiltà etrusca – ovverosia la lingua e la religione, non è necessario chiamare in causa un’emigrazione dall’oriente. La lingua etrusca non rappresenta, di per sé, un mistero inestricabile. Semplicemente, ci mancano i testi. Benché il mondo etrusco abbia prodotto una grande mole di prodotti letterari – così di raccontano gli antichi, ed in prima persona nientemeno l’Imperatore Claudio, autore di una Storia Etrusca purtroppo perduta – essi non sono sopravvissuti al II secolo d.C. ed alla sistematica romanizzazione dei popoli dell’area toscana. I nostri tentativi di approcciarci alla lingua estrusca sono limitati dal fatto che i documenti a nostra disposizione sono niente di più che qualche lapide tombale, incisioni su oggetti (vedasi il fegato di Piacenza) e qualche documento di valore legale. L’analisi linguistica ha rivelato come l’Etrusco sia una lingua a carattere agglutinante, come le lingue ungro finniche (ovverosia l’ungherese ed il finlandese, ma anche come il turco, e come molte lingue asiatiche ovviamente non connesse all’evoluzione della società etrusca): è stato ipotizzato che esso sia strettamente imparentato con il basco, il che renderebbe queste due realtà espressione di una civiltà pre-indoeuropea (diciamo pure “mediterranea”) giunta, ad una piena maturazione. Chi sostiene questa ipotesi, sottolinea che gli Etruschi praticassero una religione in cui divinità del mondo sotterraneo rivestissero
un ruolo primario, in sostanziale analogia a quelle popolazioni pre-elleniche di cui Erodoto aveva potuto studiare la lingue e le usanze perché isolate sulle più remote montagne greche. Su quest’ultimo punto va tuttavia sottolineato come le divinità etrusche, piuttosto che ctonie, fossero celesti (in analogia al panteon indoeuropeo), quantomeno nelle prime e più remote fasi, acquisendo caratteri ctoni solo in una seconda e più recente frase.
D’altro canto, tali argomentazioni, anche pienamente accolte, non bastano ad escludere l’ipotesi erodotica. Per prima cosa, popoli dell’Asia minore emigrati in occidente avrebbero potuto importare una cultura mediterranea affine a quella riscontrabile nel territorio di arrivo – evento tanto più probabile se si accetta una certa uniformità delle popolazione e delle culture mediterranee alla vigilia della radiazione indoeuropea (ancora in corso all’epoca della supposta migrazione in occidente delle popolazioni anatoliche). Ed il loro impatto non sarebbe stato necessariamente quello di un’esplosione o di una rivoluzione – ma piuttosto un effetto simile al lievito: l’importazione di tecnologie avanzate provenienti dal più civilizzato oriente, e di nuovi animali avrebbe piuttosto consentito l’accelerazione dell’evoluzione sociale.
Ad avvalorare questa possibilità, la celebre “stele di Lemno”, incisa con caratteri alfabetici molto primitivi, ma molto simili a quelli usati in epoca storica dai popoli etruschi, ed espressione dell’unica lingua a noi nota effettivamente imparentata con l’etrusco. Poiché la posizione della stele sarebbe proprio sulla strada seguita da eventuali emigranti diretti dall’Asia minore all’Occidente, l’idea che essa sia il lascito di questa migrazione è molto suggestiva – sebbene controversa.
In questa situazione confusa, i dati genetici hanno dato una svolta sostanzialmente inaspettata. Per prima cosa, le ricerche di Cavalli Sforza sul DNA mitocondriale hanno sottolineato come la popolazione toscana sia, all’atto pratico, geneticamente più affine ad isolati anatolici (ovvero: a popolazioni che, risiedendo in aree geograficamente delimitate, sarebbero sopravvissute alla robusta iniezione di caratteri genetici nel corso delle travagliate vicende della penisola anatolica) che alle circumvicine popolazioni europee, e non solo.
La ricerca veterinaria ha recentemente dimostrato che alcuni animali da allevamento considerati tipici dell’area toscana (in particolare i buoi di razza chianina) siano direttamente discendenti di un antenato di origine anatolica, ed in questo senso del tutto distinte dalle altre specie bovine allevate in Europa occidentale. Poiché si ha buona evidenza che la razza chianina sia allevata sin dall’epoca Romana, non si può escludere che proprio questi animali siano una prova dell’antica narrazione di Erodoto.

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